di Pier Luigi del Viscovo, direttore di Fleet&Mobility
Definita un fallimento, Glasgow ha invece sancito una separazione che aspettavamo da tempo: da una parte le cose possibili, ossia accettabili per le popolazioni lì rappresentate dai loro vertici; dall’altra gli slogan e gli strilli di chi non riesce nemmeno a inquadrare gli interessi in gioco. Ma cosa porta in dono all’industria automobilistica europea? Innanzitutto, aver messo la Cina dietro alla lavagna ha chiarito come abbia puntato sulle auto elettriche non per sensibilità ambientale, ma perché incapace di costruire macchine termiche competitive. Dopo essersi assicurata il controllo sulle materie prime delle batterie.
Poi, aver ribadito che l’Europa non è il problema, e dunque nemmeno la soluzione, sdogana una volta di più che manco il suo parco auto, che emette l’1% (un-per-cento) della CO2, sia tanto strategico nella transizione ecologica e che, per corollario, non valga la pena di distruggere un’industria da 3,2 milioni di addetti. Se poi l’energia elettrica viene solo per un terzo da rinnovabili, di che parliamo?
La coincidenza: mentre i Tg trasmettevano su Glasgow, in Volkswagen il consiglio di fabbrica andava allo scontro col Ceo Herbert Diess, per l’ipotesi di 30mila esuberi, contestandogli eccessivo entusiasmo verso Tesla e troppa freddezza verso le auto termiche del gruppo. Tutto nell’ordine delle cose. Anzi, era sorprendente che finora i sindacati non avessero fatto sentire la loro voce su una scelta che brucerà centinaia di migliaia di posti di lavoro. Rimasti incagliati dal cliché padrone/destra-inquina vs lavoratori/sinistra-ecologici, ora che il padrone ha fatto all-in-green non gli tornano i conti. La transizione ecologica va bene ma, se sono i lavoratori a pagare il prezzo, ne deve anche valere la pena.
Questa COP26 ha sgombrato il campo dalle ideologie e messo al centro i fatti oggettivi, per quanto indigesti. E l’ha fatto con una rapidità inaspettata che fa emergere il vero problema dell’industria automobilistica: deve decidere oggi ciò che produrrà tra 10 anni. Invece, gli orientamenti della società e della politica cambiano a una velocità che spiazza le scelte strategiche dell’industria, mettendole in fuorigioco. Aver puntato troppo – e troppo presto – sull’elettrico potrebbe rivelarsi fatale.