Transizione energetica: un Fondo europeo per evitare crisi industriali
di Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison, docente di Economia Industriale e Commercio Estero presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica – (da un’intervista all’agenzia AGI)
Il rapporto sul clima dell’Onu ribadisce un allarme concreto, ma allo stesso tempo nel raggiungimento dei target europei sulle emissioni bisogna fare attenzione alle conseguenze sul tessuto industriale italiano. Si dovrebbe prevedere, a mio avviso, un Fondo di transizione europeo, altrimenti andremo incontro a un problema di crisi strutturale di interi settori industriali con conseguenze sociali e occupazionali. Bisogna rendersi conto che in Europa, buttando il cuore oltre l’ostacolo, rischiamo di uccidere le nostre industrie mentre in altre parti del mondo come in Asia, soprattutto in Cina non ci pensano per niente a centrare quei target.
Sarebbe come regalare elementi di competitività ad altri Paesi che parlano degli obiettivi di riduzione di CO2 ma poi sono molto restii ad attuarli. Il rapporto sul clima dell’Onu ribadisce l’aumento della temperatura media globale di 1,1 gradi dall’inizio dell’era industriale e rafforza il timore che un riscaldamento di 2 gradi, se raggiunto, provocherà un disastro. Da qui gli obiettivi per ridurre le emissioni che sono state fatte proprie dall’Ue con i suoi piani di abbattimento delle emissioni di CO2. Ci sono delle urgenze ineludibili e la cronaca di questi giorni, gli incendi in primis, lo dimostrano. Tuttavia vanno conseguiti gli obiettivi di riduzione di CO2, quelli riguardanti la transizione energetica e digitale avendo ben chiaro il nostro sistema economico e industriale e con la disponibilità di materie prime e tecnologie per realizzare gli obiettivi che ci diamo. Altrimenti accade come qualche anno fa per le celle fotovoltaiche importate dalla Cina. Un fenomeno simile, se di dimensioni maggiori, avrebbe effetti devastanti.
Bisogna essere determinati nel perseguire gli obiettivi di riduzione di CO2, ma altrettanto determinati nel farlo sapendo che il nostro sistema manifatturiero è fondamentale per la nostra economia. Un esempio è quello fatto dal ministro Roberto Cingolani di fronte all’obiettivo di avere tutte auto elettriche al 2030. Il rischio è la scomparsa della Motor Valley. Vogliamo chiudere la Ferrari?.
Come valuto la richiesta della Casa Bianca all’Opec di produrre più greggio? Noi abbiamo una situazione inflazionistica abbastanza diversificata anche tra i diversi Paesi europei. Negli Stati Uniti l’inflazione è arrivata a livelli considerevoli. Quello della Casa Bianca è stato un invito a ridurre quei colli di bottiglia che, non solo nell’energia, ma nell’intero settore delle materie prime industriali, in questo momento sta compromettendo la linearità del processo di ripresa post Covid. Chiaramente queste strozzature provocano degli effetti anche sulle decisioni di politica monetaria. Abbiamo in questo momento una differenza tra Stati Uniti ed Europa sulla possibile politica monetaria nei prossimi mesi. Non credo che ci sia una contraddizione in termini tra la richiesta di Biden, che prova a stemperare gli effetti inflattivi di breve termine, e quella che tutto sommato è stata una vera e propria rivoluzione per gli Stati Uniti.
Come emissioni complessive globali il gigante è la Cina, al secondo posto ci sono gli Usa che nel decennio 2008-2018 hanno ridotto le emissioni solo del 9% rispetto al -24% dell’Italia. Gli Usa non sono mai stati particolarmente sensibili su questo tema. In passato hanno considerato poco attendibili gli studi sugli impatti climatici. Poi con Biden c’è stato un cambiamento radicale. Quindi il cambiamento c’è, non vedo nelle decisioni di breve termine un ritorno ai combustibili fossili, ma piuttosto il timore che queste strozzature possano portare a nuove fiammate inflattive.
Quali sono le conseguenze economiche e industriali di tali obiettivi? Ci sono conseguenze positive perchè il Pnrr ha una cospicua dote di risorse da investire nella transizione ecologica. Quasi 70 miliardi di cui 60 miliardi che attingono al dispositivo di ripresa e resilienza e una decina di miliardi da fondi complementari. È un investimento molto importante che si concentra in particolare su 4 filoni: l’agricoltura sostenibile dell’economia circolare; la transizione energetica della mobilità sostenibile; l’efficienza energetica e la riqualificazione degli edifici e infine la tutela del territorio e delle risorse idriche anche per ridurre i pericoli derivanti da dissesti del territorio e dagli sprechi delle risorse idriche. Queste sono le opportunità che si tradurranno in investimenti importanti con il contributo anche dei fondi europei a cui l’Italia attingerà insieme alla Spagna in maniera più cospicua tra i paesi Ue.
Gli aspetti critici sono quelli fissati dalla stessa Commissione europea riguardo la riduzione delle emissioni di CO2 al 2030 del 55% e poi addirittura a net zero nel 2050. Sono obiettivi incredibili se rapportati alle nostre abitudini e del nostro recente passato. Bisogna osservare che l’Italia in questo senso è tra i Paesi più virtuosi del G20. Per quanto riguarda le emissioni totali di CO2, che comprendono anche quelle dell’agricoltura, siamo il Paese, dopo l’Argentina, che ha minori emissioni e se consideriamo invece solo le emissioni da combustibili fossili veniamo dopo l’Argentina e la Francia che, però, ha il nucleare. La posizione italiana all’interno del G20 è virtuosa. Anche la riduzione che c’è stata nell’ultimo decennio (2008-2018) dimostra come l’Italia sia il Paese che ha fatto lo sforzo maggiore insieme alla Gran Bretagna riducendo le emissioni rispettivamente del 24% e del 29%. Per un confronto, la Francia ha fatto -13% e la Germania -11%.
L’Italia deve comunque stare molto attenta a fare quello che deve senza compromettere però la struttura competitiva del proprio sistema manifatturiero che è la nostra risorsa fondamentale. Se oggi stiamo uscendo così rapidamente dalla crisi è grazie al nostro sistema manifatturiero che è riuscito ad ammodernarsi molto dal punto di vista tecnologico negli ultimi anni. Pensiamo a Industria 4.0. Siamo stati il Paese del G7 che ha fatto gli investimenti maggiori nell’industria manifatturiera dal 2015 in poi. E questo ci ha portati a diventare primi per crescita della produttività, ad avere una bilancia commerciale totale con l’estero che è passata in 10 anni da -40 miliardi di dollari di deficit a +80 miliardi di surplus.
Bisogna porre attenzione affinché questa nostra risorsa non venga compromessa dall’esecuzione spartana, poco oculata, dagli obiettivi climatici che creerebbero problemi economici, occupazionali, sociali e di competitività con l’estero di dimensioni tremende. Bisogna essere saggi anche a pretendere che laddove alcuni obiettivi di riduzione siano particolarmente onerosi da conseguire, l’Europa intervenga con dei fondi ad hoc. Non si può pensare che le imprese private, da sole, sostengano uno sforzo così enorme con il rischio, ripeto, che in altre aree del mondo, con industrie in competizione con le nostre non abbiano gli stessi stringenti vincoli
La transizione è complementare con gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Anche in questo caso bisogna stare molto attenti a non compromettere, da una parte, la competitività di alcuni settori obbligandoli a dei percorsi forzati che solo noi pretendiamo a livello mondiale. Dall’altra, bisogna essere certi per di avere le tecnologie per conseguire questa transizione energetica. L’Europa dovrebbe porsi molto seriamente questo problema. È un po’ quello che stiamo vedendo oggi sulle batterie prime che rappresentano una strozzatura temporanea da squilibri di domanda/offerta di breve periodo generati da dai colli di bottiglia creati dai lockdown e dalle speculazioni. È un piccolo esempio di quello che potrebbe succedere a livello mondiale dove l’Europa si getta a capofitto nelle rivoluzioni energetiche ed ecologiche, mentre la Cina controlla le batterie prime che servono a gestire queste rivoluzioni. Insomma bisogna stare molto attenti a non darci la zappa sui piedi
I rischi maggiori per l’industria italiana? I target Ue sono molto sfidanti soprattutto per un Paese come il nostro. La Germania ha delle emissioni di CO2 molto elevate, ha un sistema industriale che è il maggiore d’Europa, fondato sull’automotive e sull’industria meccanica. Il nostro è molto più variegato, con molti settori cosiddetti ’hard to abatè, quelli dove è molto difficile ridurre le emissioni. Ad esempio, il settore dell’acciaio, quello del vetro, della carta, delle piastrelle e ceramiche e quello della chimica. Da noi sono inserite dentro delle filiere molto importanti. Questi settori sono altamente energivori per loro natura e hanno un consumo di processo che è quasi ineludibile e dove spostare i consumi energetici sulle rinnovabili è una sfida estremamente complessa.
Per questo credo che l’Italia dovrà porre il problema molto seriamente in Europa magari insieme alla Germania che è un altro grande Paese manifatturiero. Ma credo che anche la Spagna e la Francia siano sensibili a questo tema. Centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni in questi settori che hanno consumi elevati di energia elettrica e di gas è molto difficile visto che tali consumi sono parte del processo produttivo. Bisogna trovare dei percorsi preferenziali nel senso che non devono essere necessariamente questi settori a centrare prima di tutti gli altri gli obiettivi di riduzione.