Storia ed evoluzione dell’auto elettrica

di Lorenzo Morello*

La commercializzazione dell’auto elettrica iniziò prima di quella della sua controparte con motore a combustione interna; Charles Jeantaud, costruttore di carrozze a Parigi, fu probabilmente il primo a dedicarsi seriamente a questo settore produttivo dal 1881, cinque anni prima di Karl Benz con la sua Patent Motorwagen. Gli elementi indispensabili per il funzionamento dell’auto elettrica erano già allora disponibili: il motore elettrico a corrente continua fu brevettato da Thomas Davenport nel 1834; le batterie ricaricabili al piombo da Gaston Planté nel 1859; infine, nel 1880 Thomas Edison brevettò il sistema di produzione e distribuzione dell’energia elettrica in corrente continua, indispensabile per l’uso pratico delle auto elettriche. La decisione di Jeantaud non fu certo motivata dalla ricerca del risparmio energetico o della riduzione dell’inquinamento, bensì dalla semplicità costruttiva di un veicolo dotato di propulsore elettrico. Quest’ultimo era, infatti, meno complesso di quello a combustione interna e, per il suo impiego, non era necessario il cambio, la frizione né, tantomeno, la manovella d’avviamento. L’uso di questi tre dispositivi era considerato da molti come un impedimento rilevante alla diffusione dell’automobile con motore a combustione interna. I primi veicoli elettrici furono introdotti inizialmente in sostituzione delle carrozze di piazza, i taxi di allora, e alcuni propulsori elettrici furono proposti per la trasformazione delle carrozze esistenti, come gruppi intercambiabili con il loro assale anteriore. Jeantaud vantava nel 1895 un catalogo con diversi modelli.

La prima vettura in Italia

Nel nostro Paese, la prima auto elettrica fu probabilmente costruita da Giuseppe Carli, fra il 1890 e il 1891, su progetto di Francesco Boggio, un suo collaboratore. Carli operò in diversi settori industriali a Castelnuovo della Garfagnana e fu uno dei pionieri nella produzione dell’energia elettrica per via idraulica per scopi industriali. La sua automobile, ricostruita nel 2009 dagli studenti dell’Ipsia S. Simoni di Castelnuovo della Garfagnana dal disegno originale, pesava 140 kg, per metà imputabili alla batteria; con una capacità di 250 Ah (circa 3 kWh), alimentava il motore elettrico attraverso un regolatore inversore a quattro livelli di tensione. La potenza era circa 1 cv, la velocità massima 15 km/h con un’autonomia di 10 ore. Furono costruiti solo alcuni prototipi, purtroppo perduti, e non vi furono seguiti industriali. Potrà oggi stupirci che, oltre che per la loro semplicità di guida, le auto elettriche fossero anche apprezzate per la superiorità delle loro prestazioni rispetto a quelle raggiungibili con i motori a combustione interna disponibili a quel tempo.

Le prestazioni

I primi record di velocità furono conquistati, infatti, da automobili Jeantaud. Gaston de Chasseloup-Laubat superò 63 km/h nel 1898, con una Jeantaud Duc da 35 cv. I motori termici più potenti, in quegli anni, raggiungevano al massimo 10 cv. Anche la Jamais Contente, costruita dalla Compagnie Internationale des Transports Automobiles de Paris, la prima a superare 100 km/h nel 1899, era elettrica. Utilizzava due motori con potenza complessiva di 68 cv. La scorta di energia era costituita da una batteria al piombo da 650 kg; l’autonomia alla velocità massima era appena sufficiente a percorrere i pochi chilometri del tratto stradale impiegato per omologare il record. Credendo nel loro successo, anche Lohner, un costruttore di carrozze fornitore della casa imperiale austriaca, decise di costruire auto elettriche da turismo. Telai e carrozzerie provenivano dal suo stabilimento, mentre le apparecchiature elettriche erano fornite dalla Béla Hegger, in cui operava Ferdinand Porsche come direttore tecnico.

E arrivò l’ing. Porsche

Porsche studiò un motore particolare, adatto a essere integrato nelle ruote anteriori, per evitare la necessità di trasmissione e differenziale; l’idea piacque così tanto a Lohner da convincere Porsche a trasferirsi nella sua azienda, facendogli iniziare, con un’auto elettrica, la sua fruttuosa carriera di progettista di automobili. La Lohner Electric Phaeton, presentata a Parigi nel 1900, aveva 5 cv, incrementabili a 14 per brevi periodi, potendo raggiungere la velocità di crociera di 37 km/h o la velocità massima di 60 km/h. L’autonomia era di circa 50 km con 400 kg di batterie. Peso e autonomia erano evidentemente i suoi punti deboli. La Lohner Semper Vivus del 1900, ancora progettata da Porsche, si proponeva di eliminarli. Il sistema propulsivo fu modificato, aggiungendo due piccoli gruppi elettrogeni, con motori a benzina De Dion-Bouton da 3,5 cv, che potevano ricaricare una batteria di più contenute dimensioni.

Ed ecco l’antesignana delle ibride

La prima auto ibrida nacque quindi esclusivamente per cogliere i vantaggi della trazione elettrica, limitando le penalizzazioni imposte dalla scarsa capacità delle batterie. Esistevano però ancora altri punti critici. I contatti striscianti dei motori erano soggetti a rapida usura e gli avvolgimenti erano costosi e poco affidabili, in particolare a causa dell’isolamento elettrico che, mancando materiali più appropriati, era costruito fasciando i conduttori di rame con fili di seta. Infine, per avviare il veicolo senza pericolo di surriscaldamento, a causa dell’elevato assorbimento di corrente dei motori a corrente continua allo spunto, era necessario ridurre temporaneamente la tensione; per questo si doveva variare lo schema di collegamento degli elementi della batteria e, eventualmente, degli avvolgimenti del motore. Erano necessari costosi e complicati interruttori combinatori, i controller; un esempio di questi dispositivi è mostrato all’interno della colonna di sostegno del volante di una Krieger Electric Brougham del 1904. I contatti, aperti e chiusi per mezzo della rotazione di un albero a camme, erano in grado di variare la tensione in sei-otto combinazioni, impiegate per accelerare, rallentare e invertire la marcia.

La diffusione negli Usa

L’auto elettrica per uso privato si diffuse particolarmente negli Stati Uniti. Alla base di questa singolarità di mercato vi è forse il fatto che, in questo paese, si attribuì subito grande importanza alla semplicità d’impiego; pur riservata a pochi per il suo prezzo elevato, l’auto fu presto considerata come un mezzo di trasporto più comodo di quelli esistenti e non solo come espressione di abilità sportiva o di stato sociale, come accadde invece in Europa. Un indicatore rappresentativo di questa tendenza è che nel 1900, negli Stati Uniti, si produssero 1.600 auto elettriche su un totale di 4.000, contro numeri trascurabili in Europa. Un esempio di auto di successo in questi anni può essere fornito dalla raffinata Rauch & Lang Brougham del 1905, dalla forma particolare, immortalata da Walt Disney nell’auto di Nonna Papera.

Ma arrivò il motorino d’avviamento

Tuttavia, anche negli Stati Uniti, l’auto elettrica iniziò a scomparire quando, anche grazie ai cambi semiautomatici sviluppati da Ford e Oldsmobile, i clienti accettarono le difficoltà di guida dei motori termici e le prestazioni di questi ultimi superarono quelle dei motori elettrici; si ritiene comunemente che il colpo di grazia sia stato dato dall’introduzione del motorino d’avviamento, avvenuta nel 1916. Negli anni successivi l’auto elettrica rivestì un ruolo marginale; solo nel periodo della Seconda guerra mondiale si verificò una sua modesta ripresa. I carburanti erano, infatti, monopolizzati dagli impieghi militari, mentre l’energia elettrica, allora prodotta in molti Paesi per via idraulica, sembrava essere abbondante e inesauribile. Nacquero numerose automobili per uso individuale: si ricorda, come esempio di queste proposte dalla vita effimera, la VLV della Peugeot, effettivamente prodotta in circa 400 esemplari dal 1941 al 1943 e l’Elettropattino, un prototipo di minivettura ovoidale progettata da Mario Revelli di Beaumont. Più visibile fu la presenza di veicoli da trasporto elettrici, usati soprattutto dai servizi municipali e per le consegne porta a porta. La tecnologia impiegata in queste realizzazioni era, tuttavia, ancora fondamentalmente la stessa delle prime automobili: batterie al piombo, motori a corrente continua, controller a contatti.

Gli anni della crisi energetica

Una ripresa degli studi sui propulsori elettrici e ibridi, concretatasi in molti prototipi di ricerca e alcune piccole produzioni, si verificò negli anni ’70, dopo la prima crisi energetica che, per l’improvviso aumento del prezzo dei carburanti, stimolò l’avvio di ricerche per limitare il consumo di prodotti petroliferi. L’esempio più noto di auto elettrica prodotta in piccola serie è fornito dall’americana SebringVanguard CitiCar, costruita in circa 3.500 esemplari fra il 1974 e il 1976 e venduta al prezzo di circa 4.500 $. Poco più di un golf cart (peso di soli 570 kg), aveva una carrozzeria in vetroresina, costruita in deroga agli standard di sicurezza già allora vigenti per le automobili. Un motore a corrente continua da 2,5 cv, alimentato da 6 batterie al piombo da 6 V, attraverso un controller a contatti, poteva farle raggiungere 60 km/h e un’autonomia di circa 60 km. A quel tempo il progresso tecnologico permetteva già di costruire regolatori elettronici di tensione continua, i chopper, in prospettiva migliori per costo e affidabilità dei controller a contatti. La tensione era regolata interrompendo l’alimentazione per brevi intervalli di durata variabile. Un esempio di auto elettrica, costruita secondo questa nuova tecnologia, può essere fornito dalla X1/23, un prototipo di minivettura, tuttavia paragonabile in ogni dettaglio tecnico a un’automobile convenzionale del tempo, presentato dalla FIAT al Salone dell’Automobile del 1972. Grazie a dimensioni limitate al trasporto di due passeggeri, fu possibile contenere la massa in 820 kg. Il motore elettrico, applicato all’asse anteriore, erogava 10 kW, in grado di offrire una velocità massima di 75 km/h. Con 166 kg di batterie al piombo, era possibile raggiungere un’autonomia di 70 km, giudicata appena sufficiente per l’uso urbano. Nonostante questi esempi deludenti, negli Stati Uniti, l’Epa (Environmental Protection Agency) avviò il Federal Clean Car Incentive Program, con il proposito di stimolare lo sviluppo di veicoli a basso impatto ambientale, per lo più elettrici.

Il nodo dell’autonomia

L’insoddisfacente autonomia raggiungibile con le sole batterie fece riprendere in considerazione, adattandolo ai tempi e conformandolo alle nuove tecnologie disponibili, lo schema della Lohner Semper Vivus. Uno dei fondatori della Motorola, Russell Feldman, incaricò Victor Wouk (1919 – 2005), considerato il padre dei veicoli elettrici americani, di partecipare al programma. Egli fondò la Petro-Electric Motors, nel cui ambito sviluppò un prototipo derivato dalla Buick Skylark, il primo esempio di automobile ibrida elettrica concepita non per risolvere i problemi della limitata autonomia dell’auto elettrica ma per ridurre consumi ed emissioni del motore a combustione interna. Nel corpo di una Buick Skylark, ribattezzata Hybrid per l’occasione, fu istallato un motore Wankel, a funzionamento intermittente, per l’azionamento di un generatore da 20 kW, impiegato per la ricarica delle batterie. Il prototipo, in prova dal 1974, superava 100 km/h, dimostrando la possibilità di dimezzare i consumi dell’automobile d’origine e di ridurne le emissioni del 90% circa, anche se con prestazioni inferiori. Anche altri costruttori tentarono questa strada, usando motori convenzionali a combustione interna.

La Fiat 131 Ibrida

Citando ancora la Fiat, si ricorda la 131 Ibrida del 1978. Il cambio dell’automobile originale fu sostituito con un motore a corrente continua da 24 kW, capace di ruotare alla stessa velocità del motore termico. Quest’ultimo era derivato da quello della 127, con 903 cm3 di cilindrata e 33 cv; la potenza totale raggiungeva 65 cv. Un sistema di regolazione elettronico, controllato da un microprocessore digitale e comandato dai pedali del freno e dell’acceleratore, attivava, mediante un chopper, la ricarica delle batterie in frenatura e riversava potenza elettrica aggiuntiva sulla trasmissione, durante le accelerazioni. Erano sufficienti 180 kg di batterie al piombo per ottenere un’autonomia limitata dalla sola capacità del serbatoio. Lo spazio abitabile non era diminuito ma metà del bagagliaio era occupata da batterie. Con prestazioni non diverse da quelle della 131 1300, fu documentato un miglioramento dei consumi del 25%. I risultati, anche se interessanti, non incoraggiarono, tuttavia, lo sviluppo di applicazioni pratiche, a causa dei costi, allora giudicati eccessivi, e delle dimensioni ridotte del bagagliaio. Nel periodo successivo quasi tutti i costruttori continuarono a svolgere ricerche in questo settore, apportando alle auto ibride elettriche miglioramenti tecnologici sostanziali, soprattutto grazie alle prestazioni dei microprocessori elettronici, in costante aumento, e alla disponibilità di batterie migliorate al NiMH e, in seguito, al Li-ion.

La sferzata di Toyota e la EV1 di Gm

Toyota, con la Prius, iniziò per prima, nel 1997, a commercializzare un’auto con questo schema propulsivo. Tornando all’auto puramente elettrica, la General Motors EV1 fu la prima di questo tipo a essere prodotta in serie, anche se solo in vista di una sperimentazione estesa. Prodotta in circa 1.100 esemplari dal 1996 al 1998, non fu mai venduta ma solo affittata a clienti selezionati, residenti in aree urbane, al costo di circa 500 $ il mese. La sperimentazione fu sospesa dalla Gm nel 2002, ritenendo non si fossero i presupposti per una produzione economica. Voci, non confermate ufficialmente, riferivano che queste automobili avevano un costo di produzione di 80.000 $, quando il prezzo accettabile da un cliente non avrebbe dovuto superare la soglia di 30.000 $. La tecnica dell’EV1 era molto avanzata. La forma era aerodinamica, con un Cx di 0,19. La struttura di carrozzeria, in alluminio e plastica, permetteva di contenere la massa in 1.600 kg, nella versione con batterie al NiMH. L’istallazione delle batterie nel tunnel centrale fu definita per non penalizzare lo spazio interno e non costituire pericolo per gli occupanti in caso di collisione. Il motore sincrono da 100 kW, a magneti permanenti senza collettore, era regolato variando la frequenza della tensione alternata di alimentazione, convertita da quella continua delle batterie attraverso un inverter elettronico. Le batterie inizialmente impiegate erano al piombo; in seguito, furono adottate quelle al NiMH, che consentivano un’autonomia di 260 km. Erano allo studio anche batterie al litio. Queste scelte tecniche segnarono un passo decisivo per il progresso dell’automobile elettrica definendo uno schema propulsivo particolarmente affidabile e leggero, ormai universalmente adottato anche nelle realizzazioni più moderne. Se poco di più può essere fatto per migliorare e rendere più economico il motore e il suo controller, la tecnologia delle batterie appare essere l’elemento fondamentale su cui concentrare le ricerche in corso. Il parametro fondamentale di valutazione di una batteria è la sua capacità effettiva di accumulo, ossia l’energia contenuta riferita al suo peso che dovrà comprendere tutte le funzioni ausiliarie necessarie, come ad esempio le protezioni di sicurezza contro le collisioni e il ribaltamento, l’impianto di raffreddamento, i sistemi di controllo e ricarica, ecc., così come nel caso della benzina sarà necessario tener conto non solo del carburante ma anche del serbatoio, delle tubazioni e della pompa, del bocchettone di riempimento e dei collegamenti del serbatoio alla carrozzeria.

La tecnologia del Litio-ione

Si può costatare come la tecnologia del Litio-ione abbia già permesso di ridurre a un terzo il peso della batteria, rispetto alla tecnologia del Piombo, e anche come altre tecnologie siano già allo studio per ridurre ulteriormente il peso. Rimane, tuttavia, come insuperabile svantaggio, il tempo ben più lungo, impiegato per eseguire il rifornimento d’energia nel caso di una batteria rispetto a quello di un comune serbatoio di benzina. Un’autonomia non troppo inferiore alla percorrenza media giornaliera non appare più una meta fuori portata per un’auto elettrica moderna. Nell’uso medio, si può stimare il consumo di un’auto elettrica in 18 – 40 kWh/100 km, misurati ai morsetti della batteria, per auto di massa variabile da 1.400 a 2.000 kg.

Spunta la Bmw i3

Come esempio di auto elettrica moderna si propone la Bmw i3 che, con una batteria al Litio-ione da 33 kWh raggiunge un’autonomia pratica di 200 km circa (valore omologato 300 km), consumando circa 16 kWh/100 km con una potenza istallata di 125 kW. Concorre al risultato non solo il tipo di batterie ma anche la massa del veicolo, contenuta in 1.245 kg, grazie a un’architettura strutturale dedicata, costituita da un pavimento a doppio fondo per l’istallazione delle batterie, con largo impiego di materiali leggeri, quali alluminio e compositi in fibra di carbonio. La ricarica completa può svolgersi in circa 10 ore dalla presa di casa, per l’impiego di tutti i giorni, o in circa 3 ore, da una colonnina pubblica a corrente trifase, nel caso si debbano compiere viaggi più lunghi dell’autonomia, che richiederanno, evidentemente, un’accurata pianificazione di luoghi e tempi di sosta. Tuttavia la diffusione dell’auto elettrica non è solo contrastata dal problema dell’autonomia.

Ci vogliono investimenti

Occorre anche prendere in considerazione l’apporto di denaro pubblico necessario a sostenere i rilevanti investimenti per le colonnine di ricarica e per la produzione dell’energia elettrica aggiuntiva richiesta. Questi investimenti devono essere proporzionati ai benefici attesi, misurabili in termini di riduzione dell’inquinamento e del consumo di combustibili fossili, che non possono essere considerati una risorsa illimitata. Per quanto riguarda l’inquinamento devono essere presi in considerazione gli inquinanti tradizionali (ossido di carbonio, ossidi di azoto, idrocarburi incombusti e polveri) e l’anidride carbonica, responsabile del riscaldamento globale. Non devono esistere dubbi sul fatto che un’ampia diffusione dell’auto elettrica contribuirebbe a una riduzione sensibile degli inquinanti tradizionali nelle zone con traffico più intenso. Per quanto riguarda i combustibili fossili e l’anidride carbonica, a loro direttamente collegata, deve essere considerato il modo con cui l’energia elettrica sarebbe prodotta; è chiaro che una valutazione molto diversa deve essere fatta per casi come quello della Francia, in cui il 95% dell’elettricità è prodotto senza l’impiego di combustibili fossili, e quello dell’Italia, in cui tale parametro raggiunge solo il 40%.

*Presidente della commissione Cultura di Asi

1 Comments

  1. Orso says:

    Sì, ma in Francia producono parte dell’energia con il nucleare, da noi no!

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