Anch’io, dopo le prime gare combattute con Nuvolari, cominciai a chiedermi che cosa avesse di speciale lo stile di quell’ometto smilzo e serio, il cui valore si rivelava normalmente tanto più alto quanto maggiore era il numero di curve – che lui chiamava ‘risorse’ – di un percorso. Così, un giorno, alle prove del circuito delle Tre Province, nel 1931, gli chiesi di portarmi a fare un tratto sull’Alfa 1750 che la mia Scuderia gli aveva affidato. Era la prima volta che Nuvolari veniva a quella corsa, ed era guardingo perché mi aveva visto al volante di un’Alfa di tipo nuovo, una 2300 otto cilindri, più potente della sua. Non fece obiezioni: ‘Sali’, mi disse. Alla prima curva ebbi la sensazione che Tazio l’avesse presa sbagliata e che saremmo finiti nel fosso, mi sentii irrigidire nell’attesa dell’urto. Invece ci trovammo all’imbocco del rettilineo successivo con la macchina in linea. Lo guardai: il suo volto scabro era sereno, normale, non di chi è fortunosamente scampato a un testacoda.

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MilanoAutoClassica ha riproposto un estratto dal libro “Le mie gioie terribili” dove Enzo Ferrari para di Tazio Nuvolari. Buona lettura.

 

I segreti di Nuvolari

di Enzo Ferrari*

Alla seconda e alla terza curva l’impressione si ripeté. Alla quarta o alla quinta cominciai a capire: intanto, per tutta la parabola, Tazio non sollevava il piede dall’acceleratore ma, anzi, lo teneva a tavoletta. E di curva in curva scoprii il suo segreto. Nuvolari abbordava la svolta alquanto prima di quello che l’istinto di pilota avrebbe dettato a me. Ma l’abbordava in un modo inconsueto, puntando cioè, d’un colpo, il muso della macchina contro il margine interno, proprio nel punto in cui la curva aveva inizio. A piede schiacciato – naturalmente con la giusta marcia ingranata, prima di quella sua spaventosa “puntata” – faceva così partire la macchina in dérapage sulle quattro ruote, sfruttando la spinta della forza centrifuga, tenendola in strada con la forza traente delle ruote motrici. Per l’intero arco, il muso della macchina sbarbava il cordolo interno, e quando la curva terminava e si apriva il rettifilo, la vettura si trovava già in posizione normale per proseguire diritta la corsa, senza necessità di correzioni. Ricordo che mi abituai ben presto a questo esercizio, vedendoglielo fare con tanta regolarità, ma ogni volta mi pareva di precipitare nel vagoncino di un otto volante, con quella specie di stupore che tutti abbiamo provato”.
*Dal libro “Le mie gioie terribili”

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