Se la macchina si comporta da robot

di Tony Damascelli

Si aspettava novembre. Per le castagne e, per chi se lo poteva permettere, i tartufi. Profumavano, questi, come le automobili esposte al salone in quel mese, fuori, di nebbie, dentro, di luci belle e di vetture bellissime. Il salone, sostantivo che già si presterebbe all’equivoco: la bottega del barbiere? La stanza più ampia per balli e ricevimenti? L’istituto di bellezza?

No, il Salone era uno solo, quello dell’auto, anche se, al tempo, il parente salone della Tecnica stava prendendo piede e altri saloni, dal libro al cibo avrebbero invaso i giorni e i mesi, non soltanto a novembre. C’erano automobili (Agnelli Giovanni, padre di Gianni, Umberto e famiglia, usava l’articolo maschile, «gli» automobili) di vario tipo, cilindrata, prezzo. Pochissime quelle dotate di autoradio o aria condizionata, le chiamavamo «fuoriserie», nel caso erano oggetti di desiderio perverso; eravamo fermi al mangiadischi 45 giri da usare in camporella, quelle vetture invece avevano già tutto il divertimento incorporato, con l’antenna telescopica che saliva verso il cielo e con quella attiravi, come una canna da pesca, «le qualunque».

Il Salone di una volta

Il salone si limitava a questo, un circo con bestie di varia cilindrata, pneumatici con fascia bianca, qualche tettuccio apribile, a mano però. Era il massimo della tecnologia, non si poteva chiedere altro e di più. Vennero poi le autoradio estraibili che ti portavi sottobraccio e, a volte, dimenticavi al cinema o al ristorante, più spesso venivano trafugate dai soliti noti al punto che, a Napoli, accadde un episodio da repertorio della commedia italiana: un tipo parcheggiò la sua vettura e appose un cartello scritto a penna: questa auto non ha l’autoradio, ovviamente per scongiurare l’audace colpo dei malfattori. I quali, per nulla sconsolati, rubarono la vettura e fecero trovare al titolare, nel sito del parcheggio, una sedia sulla quale avevano lasciato un biglietto, anche quello scritto a penna: «Non ti preoccupare, l’autoradio la mettiamo noi».

La radio incorporata

Le Case costruttrici decisero finalmente di allestire l’apparecchio radio incorporato nel cruscotto, al massimo i ladri avrebbero sventrato il tutto. Musicassette, cd, minitelevisori, Mp3, navigatori satellitari al posto di «scusi, sa dove si trova corso Vittorio?», accensioni elettroniche, cambio automatico, servosterzo, freno motore, fari xeno, spegnimento automatico nelle soste forzate, fendinebbia, antifurto elettronico, lunotto termico, telefono, regolatore di velocità, chiavette usb, alzacristalli elettrici (vallo a spiegare ai bambini che noi andavamo con la manovella), specchietti retrovisori motorizzati, Abs e simili, sistemi per prevenire il sonno. Tutto questo era nel favoloso mondo dei sogni, non certo nei saloni novembrini, dico quello di Torino, parco del Valentino, giorno di festa a scuola, film in tivvù al mattino e raccolta in dosi industriali di dépliant e materiale cartaceo che ingolfava la nostra cameretta.

Al salone, oggi, manca soltanto l’esposizione delle ultime astronavi, magari a Capo Kennedy, poi il conto sarebbe chiuso.

E oggigiorno…

Infine siamo arrivati all’automobile che si guida sola, non ha bisogno di nulla, di nessuno, si mette in moto, parte, viaggia, si ferma, parcheggia, in retromarcia, con i soliti segnalatori acustici. La domanda sorge spontanea: in caso di infrazione al Codice, chi paga la multa? Il robot? La Casa costruttrice o il manovratore a distanza?

È il progresso, bellezze, è il salone dell’universo, un mondo ai confini della realtà e che ha superato la realtà medesima, sfuggendo a ogni immaginazione. Eppure l’automobile conserva il fascino di sempre, resta l’oggetto del desiderio, il mezzo per raggiungere il fine, il suo profumo di nuovo inebria, il finanziamento ha sostituito le cambiali, la firma digitale al posto della stretta di mano. Anche questa è tecnologia. “La civiltà sta producendo macchine che si comportano come uomini e uomini che si comportano come macchine”(Erich Fromm).

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