Se business, demagogia e beghe politiche danneggiano l’auto
Di guerre il mondo ne sta combattendo parecchie. E tutte sono legate a doppio filo con l’esigenza di fare business, anche attraverso stratagemmi e il malaffare. Succede per i conflitti di religione, per quelli legati ai migranti o alle carestie o, ancora, all’energia (leggasi petrolio e gas). Ad alimentarli è sempre il denaro. A queste guerre se n’è aggiunta da qualche tempo un’altra: riguarda l’automobile. E’ vero che il settore ci ha messo del proprio, come nel caso del Dieselgate scatenato nel settembre 2015 dal Gruppo Volkswagen, con l’ammissione del raggiro ai danni di milioni di consumatori e di essersi fatti beffa delle nome anti-inquinamento americane e, a ricaduta, di quelle asiatiche ed europee. Ma è pur vero che lo scandalo ha servito un incredibile assist a chi aspettava l’occasione migliore per scatenare l’inferno. In verità, i primi sentori che avrebbero portato quei Paesi fondamentalisti dell’ambientalismo e cultori dell’utopica “città senza auto” a dichiarare guerra alle quattro ruote, si sono avvertiti ben prima del Dieselgate, quando i legislatori hanno cominciato a identificare questo settore come il primo responsabile degli effetti inquinanti sul pianeta. Da qui la stretta progressiva sulle emissioni, l’interdizione agli accessi dei centri urbani ai veicoli più inquinanti (ma anche a quelli virtuosi di recente generazione) fino al tentativo, che prima o poi riuscirà, di mettere al bando – con l’involontaria complicità di Volkswagen – i motori diesel. O, esagerando, di proibire la circolazione delle vetture a benzina e gasolio, a beneficio di quelle esclusivamente elettriche, annunciata a partire dal 2025 da alcuni Paesi scandinavi. Ma è anche curioso notare che a dichiarare guerra alle macchine, che pagano spesso le inefficienze delle amministrazioni nella realizzazione e ammodernamento delle infrastrutture, sono anche quegli Stati coinvolti direttamente nell’azionariato di alcuni gruppi: per esempio le francesi Renault e Psa. Da una parte l’auto viene bacchettata in continuazione, dall’altra remunera lo Stato azionista che, inoltre, si fa bello quando uno di questi colossi annuncia investimenti e nuovi posti di lavoro. E’ un po’ come capita per le sigarette: il Monopolio ci guadagna, pur avvertendo esplicitamente che fanno male. La guerra, però, continua. E le accuse lanciate dall’Agenzia americana per l’ambiente a Fca, prima ancora di essere certi che il Lingotto abbia veramente manipolato le centraline di oltre 100.000 auto diesel, insieme all’ennesima apertura in Europa del caso Renault, testimoniamo come l’auto sia ormai considerata l’agnello sacrificale, anche se non nelle prime posizioni tra le maggiori fonti inquinanti, più difficili però da colpire. La querelle in corso tra Fca e Authority americane, inoltre, proietta l’auto al centro di dispute politiche, più che tra “primedonne”, l’uscente presidente Barack Obama e l’entrante Donald Trump, in quelle retrovie che vogliono far valere il loro potere fino all’ultimo, anche a costo di danneggiare l’immagine di un’azienda e di farle pagare un conto salato, con il rischio di far chiudere delle fabbriche. Il rovescio della medaglia, però, è che il settore ha subito reagito, partendo all’attacco e accettando una sfida che, se la normativa corresse allo stesso ritmo dell’innovazione, vedrebbe la bilancia pendere dalla parte di chi è identificato come il nemico numero uno. La rivoluzione in corso l’auto l’ha già vinta, 132 anni dopo che Gottlieb Daimler brevettò il primo motore a petrolio. Vetture a emissioni zero (elettriche o a idrogeno) oppure a guida autonoma, grazie all’impegno dei colossi della Silicon Valley, anche a braccetto degli stessi costruttori, sono già una realtà. E questa rivoluzione, oltre a contribuire a spazzare l’aria dallo smog, darebbe un forte impulso anche alla sicurezza, visto che i perfezionamenti in corso sulla guida autonoma dovrebbero portare all’abbattimento quasi completo degli incidenti. Ma tutto ciò rischia di passare in secondo piano: l’auto è un settore da spremere fino in fondo, anche attraverso norme restrittive quasi impossibili da rispettare, in quanto comporterebbero investimenti che farebbero saltare i bilanci e gli equilibri produttivi. E a pagare sarebbero milioni di occupati. E allora, quale cosa migliore che studiare sanzioni sempre più pesanti? O usare le quattro ruote per rendere più difficile la vita all’avversario politico? E così l’auto è diventata la protagonista di una nuova “guerra mondiale”, in nome del business e anche di pericolose ripicche.
Pierluigi Bonora