Foto: Luca Ronconi con l’ex campione Beppe Saronni
Ronconi: “Uomo di squadra, mi ispiro al ciclismo”
di Roberta Pasero
Da bambino sognava di diventare Mark Spitz. Anche se non nuotava stile libero e farfalla ma gareggiava nei 100 rana. E invece da adulto si è trovato a fare il giro delle Fiandre. A percorrere in bicicletta una delle classiche del ciclismo su strada. Un sogno irrealizzabile persino per molti ciclisti professionisti. E invece è capitato a Luca Ronconi, amministratore delegato del gruppo Koelliker, che distribuisce in Italia il marchio giapponese Mitsubishi Motor e quello coreano SsangYong.
Dalla piscina alle due ruote: la sua è una vita parallela sdoppiata.
“Io nasco come nuotatore. Dai 3 ai 17 anni la mia vita è stata in vasca: due allenamenti massacranti al giorno, sei giorni la settimana. Ero il più veloce e per alcuni anni ho coltivato la speranza di diventare uno come Mark Spitz, il Ronaldo del nuoto. Poi però non sono arrivati tutti i risultati sperati e in terza liceo ho detto basta. All’improvviso mi sono trovato con tanto tempo da riempire, da vivere con un certo sollievo”.
Cosa si pensa quando si nuota all’infinito?
“Uno sport in cui non si hanno confronti con gli altri e non si può parlare lascia tanto spazio alla riflessione. Però poi è la concentrazione a prendere il sopravvento. Un nuotatore sfida il tempo, la sua è una continua corsa contro il cronometro: per limare un centesimo di secondo impiega settimane, mesi di sacrifici, in gara sempre contro se stesso”.
Una sfida al tempo che le è rimasta nella sua professione?
“La mia etica del lavoro, la mia esigenza di mettermi sempre alla prova, di confrontarmi con me stesso, di sfidarmi è nata proprio dai miei anni in piscina. Ben sapendo che nel lavoro, come nello sport, nessuno ti regala niente. Che ci vuole sempre spirito di sacrificio”.
Poi, a un certo punto, dal bordo vasca è finito in sella.
“Il ciclismo è per me un amore controverso. Cominciato in sordina e scoppiato all’età in cui negli uomini scatta l’esigenza irrinunciabile di trovare qualcosa per tenersi in forma e per stare con gli amici. Molti diventano fanatici del ciclismo e hanno come unico pensiero ottenere delle prestazioni nelle gare per dilettanti, per me è sempre stato un salutare divertimento”.
Fino a quando lavoro e passione sono diventati quasi tutt’uno.
“Sino a quando, nel 2015, con Mitsubishi abbiamo iniziato a sponsorizzare Uae Team Emirates, la squadra di cui Beppe Saronni, un mito del ciclismo, è general manager e che fa parte della World League. Mi sono fatto travolgere dalla passione e ho cominciato ad allenarmi seriamente con un gruppo e a seguire le gare a bordo dell’ammiraglia”.
Chi lo ha fatto da passeggero dice che è un’esperienza emozionante.
“Anche molto devastante. Io ho seguito la Milano-Sanremo sull’ammiraglia del direttore tecnico Mario Scirea. Chi è al volante guida davvero pericolosamente: ascolta due radio, una collegata alla direzione della gara e una ai ciclisti, aggiorna il navigatore, guarda le immagini da un piccolo televisore dove passano le riprese dall’elicottero e risponde alle richieste dei ciclisti anche di altre squadre che gli si affiancano per chiedere la borraccia o un po’ di zucchero. E poi quando un ciclista cade, partono in gran velocità facendosi largo tra la folla guidando con una mano sola sui tornanti per raggiungerlo in pochi attimi”.
E al giro delle Fiandre quando è arrivato?
“Nel 2017 dopo un allenamento serrato: tre uscite a settimana con circa 150 km chilometri percorsi con varie pendenze. Eravamo una decina di ciclisti non professionisti appassionati e tifosi della squadra e ammessi a percorrere il giorno prima della gara lo stesso percorso ufficiale e con gli stessi riti: stesso albergo dei campioni, stessi preparatori atletici, dai massaggiatori al dietologo, stesso percorso di 120 chilometri in mezzo a una folla scatenata che ci incitava a non mollare, a non gettare la spugna, perché in Belgio il ciclismo è come da noi il calcio. Un’emozione unica. Da brividi ancora a ripensarci oggi”.
Com’è finita?
“Per terra, purtroppo. C’era una pioggia noiosa, c’era il pavè e una discesa abbastanza ripida. Poco dopo metà del percorso sono caduto malamente e, come me, altri ciclisti. Il risultato: una lussazione alla clavicola, una microfrattura all’omero e tante ferite. Che mi hanno costretto a interrompere gli allenamenti per sei mesi”.
Dal nuoto al ciclismo: è anche la metafora di una sua evoluzione personale e professionale?
“Sicuramente. Sono passato dalla sfida solitaria al gioco di squadra. Due sport che sintetizzano il mio cambiamento: da ragazzo ero individualista, puntavo su me stesso, con una sorta di presunzione giovanile, e quindi amavo il nuoto, ma anche lo sci, il tennis, sport da numeri uno. Adesso mi piace lavorare con una squadra, scambiare opinioni ed emozioni. E, dunque, mi ispiro al ciclismo e a quel mondo di condivisione che consente di arrivare con maggior consapevolezza al traguardo”.