Raffinazione: perché è importante

di Marco D’Aloisi, responsabile comunicazione di Unem

L’Italia ha una lunga tradizione nella raffinazione e per molti anni è stata considerata il “raffinatore d’Europa”. Nell’immediato Dopoguerra molti nuovi attori si affacciarono sul mercato grazie ad una restituita libertà di azione che, in primo luogo, interessò proprio l’industria della lavorazione e trasformazione del petrolio, sia attraverso interventi di potenziamento dell’esistente che con nuove realizzazioni (Augusta, Genova, Ravenna). Nel 1950 erano già in attività 22 impianti rispetto ai 10 del 1938, per una capacità di lavorazione di 7 milioni di tonnellate, a fronte di consumi intorno ai 4 milioni di tonnellate.

Una crescita che Alcide De Gasperi nel 1954, in un convegno a Napoli, salutò con queste parole: “Grazie allo sviluppo della raffinazione del petrolio, l’Italia che non ha petrolio compie oggi il miracolo di essere esportatrice di benzina”. Nei decenni successivi, grazie al boom economico e a una crescente motorizzazione che portò con sé un deciso aumento dei consumi, la capacità di raffinazione arrivò addirittura a superare i 180 milioni di tonnellate distribuite su 38 impianti (pari a circa il 30% dell’intera capacità europea) nati per iniziativa non solo di compagnie già presenti in Italia prima della Guerra, ma anche di nuovi operatori attratti dalle potenzialità che allora offriva il mercato italiano.

Un mercato che poi ha dovuto fare i conti con le crisi degli anni ‘70, che portarono all’uscita di molte di quelle aziende che avevano permesso la ripartenza del Paese, e a una progressiva riduzione della capacità di raffinazione che agli inizi degli anni ‘90 si attestò intorno ai 100 milioni di tonnellate, con 18 impianti attivi. Raffinerie sicuramente molto più complesse, avanzate tecnologicamente e con performance ambientali di eccellenza, ancora competitive sul piano internazionale e in molti casi votate proprio alle esportazioni.

L’ultima grande crisi è stata poi quella del 2008 che ha portato alla chiusura e/o trasformazione in depositi di cinque raffinerie per una capacità totale di oltre 19 milioni di tonnellate e che, ancora una volta, ha ridisegnato il panorama della raffinazione italiana. Attualmente in Italia sono attivi 13 impianti, di cui 2 bioraffinerie, tra i pochissimi casi in Europa, per una capacità di circa 87 milioni di tonnellate e lavorazioni che nel 2019 sono state pari a 72 milioni di tonnellate, a fronte di consumi di poco superiori ai 60 milioni. a

Oggi ci sono altri fattori che in prospettiva pesano sulla tenuta competitiva della raffinazione italiana, sia di natura esogena che endogena. Tra quelli esogeni, al di là degli effetti del Covid-19 che si spera possano essere riassorbiti in tempi brevi, rilevano senza dubbio i profondi mutamenti della mappa della raffinazione mondiale che si è spostata sempre più verso Oriente, dove nei prossimi anni si concentrerà il grosso dei consumi e dove, per questo, sono sorte raffinerie in grado di coprire da sole l’intera domanda italiana di un anno. Nel 2019 la capacità mondiale di raffinazione è stata pari a circa 102 milioni bbl/g, di cui il 36% concentrato nella regione Asia-Pacifico (rispetto al 33% del 2010) e con la sola Cina che ha attirato oltre la metà degli oltre 54 miliardi di dollari investiti lo scorso anno in nuova capacità. Nei prossimi due decenni la quota coperta dai Paesi asiatici è destinata a salire ancora, fino a circa il 40%, principalmente a scapito di un’Europa che si trova in una evidente situazione di concorrenza “sleale” sul piano delle regole.

Spesso ci si dimentica che l’Europa ormai si approvvigiona di greggio su diversi scacchieri e se c’è una crisi in un’area geografica la disponibilità viene subito assicurata da altri Paesi produttori. In altre parole, la fornitura di greggio è garantita a livello globale, mentre per quanto riguarda i prodotti raffinati il discorso è diverso e senza un’industria della raffinazione il rischio è di dover dipendere da aree in forte sviluppo che presentano una domanda in crescita e ad un costo sicuramente maggiore. Quanto ai fattori endogeni, si possono considerare tali la scarsa considerazione da parte dei policy makers della strategicità del settore ai fini della sicurezza degli approvvigionamenti e del contributo che può dare alla decarbonizzazione, che poi si traducono in provvedimenti che non facilitano certo la vita degli operatori: misure più stringenti rispetto agli stessi standard fissati in sede europea, disomogenei sul territorio e spesso ai limiti della fattibilità tecnica. La strategicità della raffinazione è emersa in tutta evidenza in questa pandemia nell’assicurare gli standard di sicurezza e qualità degli approvvigionamenti, specialmente quelli necessari per la mobilità dei servizi di assistenza sanitaria, trasporti alimentari e altri generi di prima necessità, per non parlare della petrolchimica e della tanto vituperata plastica. Un’emergenza durante la quale gli impianti, impossibilitati a fermarsi, hanno continuato ad essere attivi nonostante la sostanziale assenza di una domanda che ha determinato significativi problemi operativi e una crisi di liquidità di diversi miliardi di euro. Una filiera che dunque ha dato prova di affidabilità e responsabilità ma, soprattutto, di consapevolezza del ruolo essenziale che ricopre nell’economia di un Paese, spesso riconosciuto a parole ma non nei fatti.

Lo stesso si può dire per la scarsa considerazione che si dà alle potenzialità offerte da un’evoluzione in corso da tempo, che ha preso forma con il progetto lanciato il 15 giugno da FuelsEurope, denominato “Clean Fuels for All”. Progetto che punta ad arrivare al 2050 alla neutralità carbonica nel settore dei trasporti attraverso lo sviluppo e l’impiego di nuovi carburanti liquidi a basse emissioni di carbonio (LCLF). Prodotti come biocarburanti – su cui siamo già all’avanguardia – ed e-fuels derivanti da materie prime non petrolifere e dall’economia circolare, con zero o limitate emissioni nette di carbonio, sia durante la fase di produzione che di impiego, da miscelare in percentuale crescenti con i carburanti di origine fossile per sostituirli gradualmente.

Tra i tanti vantaggi di questi nuovi prodotti: la possibilità di ridurre la pressione e i costi per il ricambio completo del parco auto; offrire ai clienti una scelta tra diverse tecnologie a basse emissioni di carbonio; preservare la solidità industriale europea e i posti di lavoro nel settore automotive; sfruttare al meglio le infrastrutture logistiche e distributive esistenti; sviluppare soluzioni industriali fondamentali come l’idrogeno “verde” e “blu”  e la “Carbon Capture & Storage” (CCS) a vantaggio anche di altre filiere. In poche parole, restituire all’Europa e all’Italia una vera leadership industriale in questo campo.

Le potenzialità sono enormi e si stima una produzione potenziale di LCLF fino a 30 milioni di Tep (tonnellate petrolio equivalente) all’anno già entro il 2030, con un investimento di 30-40 miliardi di euro e una riduzione annuale di 100 milioni di tonnellate di CO2 al 2035. Entro il 2050 si potrebbe arrivare a 150 milioni di Tep all’anno, con un investimento complessivo stimato tra i 400 e i 650 miliardi di euro, senza la necessità di infrastrutture aggiuntive e con i veicoli già oggi in produzione. La tecnologia degli LCLF, in combinazione con l’elettrificazione e le tecnologie dell’idrogeno, permetterebbe quindi di raggiungere la neutralità carbonica nel trasporto stradale e di ottenere anche riduzioni significative nel traporto aereo e marittimo, in linea con la strategia europea “Clean Planet for All”. Ma per rendere tutto ciò possibile servirebbe un quadro di regole certo e coerente che favorisca gli investimenti e non il contrario.

In un momento in cui sono tutti impegnati a trovare un modo “green” per spendere i tanti soldi che arriveranno dal “Recovery fund”, un pensierino a sostenere questo percorso di evoluzione verso una raffinazione e una mobilità decarbonizzata in fondo potrebbe non essere una cattiva idea. Sicuramente sarebbe un chiaro segnale per gli investitori che forse tornerebbero guardare con più interesse al nostro mercato. Un po’ come 50 anni fa.

 

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