Piccinini (fotografo e calciatore mancato): “Ma che gol con i miei scatti: il Drake, Hamilton e…” 

 

di Roberta Pasero

 

Da piccolo voleva fare il calciatore. Perché per 90 minuti su quel campo di football dimenticava chi era. La sua solitudine, la sua rabbia, le sue fragilità. Poi la vita ha deciso altro per lui e Roberto Piccinini si è ritrovato a fare il fotografo nella prima agenzia fotografica italiana di motorsport, l’Actualfoto di Bologna, quella fondata nel 1950 da due precursori del fotogiornalismo specializzato nel mondo delle corse, suo padre Pierino e suo zio Giancarlo Piccinini.

Quella che oggi ha un patrimonio storico unico, che non finisce più: 8 milioni di scatti, 26 armadi di archivio, di negativi, di diapositive, di bolidi e di piloti, di scatti che sfumano nel bianco nero, di rally e di formule passione. Di emozioni. Nella sua carriera Piccinini ha catturato gli sguardi di centinaia di miti del volante, da Enzo Ferrari a Gilles Villeneuve, da Ayrton Senna a Lewis Hamilton quando ancora non era il re della F1, ha messo in posa centinaia di nuove automobili, ma ha anche fotografato il matrimonio di Luciano Pavarotti, il battesimo di Oceano Elkann e le immagini di  alcune campagne pubblicitarie di Tim e di Agip.

 

Eppure, lei da bambino aveva soltanto il calcio nel cuore.

“Giocavo a pallone perché ho sempre vissuto nei cortili e i ragazzini di quelle partite sono ancora miei amici. Poi ho iniziato gli allenamenti seri: mio padre non lo sapeva nemmeno che facevo chilometri per andare a tirare al pallone, non immaginava che vivessi di calcio. Giocavo in una squadra chiamata Le due Madonne, poi mi prese il San Lazzaro e poi con il Castel San Pietro giocavo in serie D. Però a 17 anni mi feci male a un ginocchio e la mia carriera finì lì”.

Quale calciatore sognava di diventare?

“Non avevo idoli. Non potevo permettermi di avere modelli da seguire. Io ero un bambino solo: ho perso la mamma a 10 anni. Avevo, ho, due sorelle molto più grandi che presto hanno fatto la loro strada. Così a 13 anni vivevo da solo perché mio padre lavorava e non era mai a casa. Ero arrabbiato con la vita e non avevo tempo per sognare: pensavo soltanto a non diventare cattivo e a non essere invidioso della felicità altrui. Dei Natali, dei compleanni, delle giornate che riaprono ferite, che ti mettono di fronte alle grandi assenze. Perché il dolore è un conto che non finisci mai di pagare. Soltanto quando va tutto bene riesci ad avere dei sogni. I miei si erano rotti, per questo non ne avevo a lungo termine”.

Negli anni, però, non ha mai smesso di frequentare gli stadi.

“Aiuto e seguo i ragazzini del calcio giovanile, l’ho fatto da allenatore per 18 anni e da supporter ancora oggi, accompagnandoli agli allenamenti, consigliandoli, ascoltandoli, per aiutarli e cercare di dare a tutti la possibilità di giocare con spirito di gruppo e lealtà”.

Forse perché nei bambini rivede il bambino che non è stato?

“Ho imparato a diventare un uomo così in fretta da non riuscire a godere di tante piccole cose che da ragazzo ti fanno stare bene. Da adulto ho sempre avuto un buon rapporto con i bambini perché sono sinceri, perchè ti dicono quello che pensano. Non hanno filtri e non pensano alle conseguenze delle loro azioni. Mettersi al loro livello ti fa vedere il mondo da un’altra prospettiva, ti fa fare cose che da adulto non faresti mai. Ti aiuta a ritrovare la poesia che crescendo abbiamo perso, a restare sempre bambini nel cuore”.

 

Quali sono i fotogrammi più nitidi della sua infanzia?

“Quando penso a me da piccolo mi rivedo seduto al tavolo della cucina a mangiare la ciambella con il latte da solo perché in casa non c’era nessuno. Oppure quando finiti gli allenamenti e tutti tornavano a casa a fare la merenda, io che non avevo nessuno ad aspettarmi, prendevo la Vespa e andavo a comprarmi un bombolone e me lo mangiavo da solo seduto sul sellino”.

Ma anche stando dietro un obbiettivo si continua a essere soli.

“Io non volevo fare il fotografo, mi sono trovato immerso in questo mondo perché mio padre era fotografo. I primi tempi andavo con lui le domeniche sui circuiti. Era un sacrificio che però mi ha consentito di restare sulla retta via. Poi, quando avevo poco più di 20 anni, mio padre è morto improvvisamente, è stato un altro dolore infinito ed io ho preso il suo posto. Perché alla fine ho capito che provare a diventare una bella persona è una scelta di vita più importante che scegliere un lavoro”.

La fotografia le è stata d’aiuto nei momenti difficili?

“Mi ha permesso di tirare fuori una parte nascosta di me. Io sono una persona tendenzialmente solare, positiva. Chi non mi conosce bene non immagina la mia storia. Ma avendo avuto ferite nel cuore ho sempre dovuto camminare con il vento che mi sbatteva forte in faccia. Non ho mai aperto completamente me stesso come forma di autodifesa, per non riavvolgere il rullino del dolore. Attraverso la fotografia ho potuto manifestare la dolcezza che non sempre riuscivo e riesco a trasmettere. Per questo quando scatto non per lavoro ma per me mi piacciono i sorrisi e i tramonti che rappresentano i miei due me stesso: il mio essere solare e la mia solitudine. Perché fare il fotografo, oggi non è soltanto scattare una bella istantanea, ma è anche comunicare agli altri il tuo modo di vedere. Il tuo modo di essere”.

Lei una volta mi ha detto che non sono le foto a emozionare, ma che l’emozione è nello sguardo di chi le osserva.

“La fotografia è come la musica. Non puoi mentire quando suoni e quando canti: se non ti emozioni tu non emozioni gli altri. Con la fotografia accade lo stesso: l’emozione noi fotografi dobbiamo alimentarla e per farlo devi conoscere persone che ti emozionano: che siano un grandissimo scrittore o un artista, una persona anziana o un bambino. E’ conoscendo gli altri, raccogliendo le loro storie e alimentando le proprie emozioni che un fotografo può trasmettere quello che sente attraverso uno scatto”.

Regala emozioni anche fotografare le corse automobilistiche?

“Io preferisco fotografare competizioni come la Formula Renault o la Formula Regional di Alpine perché lì corrono ragazzini puri che saranno i campioni di domani, com’era capitato a Felipe Massa che fotografai nel 2000 quando vinse la Formula Renault 2.0 Italia. Leggi nei loro occhi le emozioni della prima volta”.

Altre emozioni lei le ha racontate in una toccante mostra fotografica di grande successo,  ancora allestita al Bellaria di Bologna, e dedicata agli eroi del Covid-19.

“Non volevo fare il classico servizio fotografico, ma volevo anche trasmettere un po’ di buon umore. Così con il mio amico fotografo Gabriele Fiolo abbiamo  scattato 800 ritratti a medici, infermieri, tecnici di laboratorio, inservienti degli ospedali Bellaria e Maggiore. A tutti abbiamo chiesto di portare un oggetto che li identificasse e di scrivere un pensiero sul momento che stavano vivendo da utilizzare come didascalia . In quei giorni ho capito che la fotografia è un mezzo che aiuta a rilassare anche nei momenti di difficoltà, che fa stare meglio“.

Poi, in uno dei due ospedali, lei è stato ricoverato proprio per il Covid-19, quasi un contrappasso al contrario.

“Ero nel reparto di terapia subintensiva e quando si è sparsa la voce del mio ricovero ogni giorno passavano a turno le persone che avevo fotografato a chiedermi come stavo, a sostenermi con un affetto e un’umanità infinita”.

Non ha mai smesso di fotografare nemmeno quando era ricoverato.

“Ero in una camera con una finestra grande che dava sul santuario di San Luca, un luogo magico di Bologna. Se appena me la sentivo lo fotografavo con il cellulare in vari momenti della giornata. Era un modo per sentirmi vivo. E quando sono stato dimesso per ringraziare chi mi aveva curato ho fatto un poster con la mia foto di San Luca illuminato dalla luna rossa. Da allora il reparto di semintensiva è stato soprannominato reparto San Luca”.

Poi è tornato in pista, alla fotografia e al calcio, la sua vita parallela.

“Sono tornato a sorridere. E a giocare a pallone.  Anche se, riflettendo, la mia vera vita parallela non è al di fuori ma è tutta qui, dentro me stesso”.

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