Oggi, 27 settembre, a due mesi dalla sua scomparsa, Sergio Marchionne sarà ricordato ad Auburn Hills, nel Michigan, dove ha sede Fca Us, e patria di quella Chrysler alla quale, unendola a Fiat, l’ex ad ha assicurato un futuro. Alla cerimonia di commemorazione, che segue quella svoltasi il 14 settembre a Torino, interverranno i vertici del gruppo, i familiari e, c’è da scommetterci, una moltitudine di operai americani ai quali il grande manager ha fatto ritrovare il sorriso. Per l’occasione, ecco un ricordo di Marchionne firmato da Tony Damascelli, editorialista de “il Giornale”.

Perché gli Agnelli devono molto a Marchionne

di Tony Damascelli

Ci sono parole mille e altrettante storie, per descrivere Sergio Marchionne. Per tutte, potrebbe bastare la sua risposta a Gian Carlo Avenati Bassi, pubblico ministero nel processo, era il duemila e cinque, che vide alla sbarra, per aggiotaggio informativo, Gian Luigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e Virgilio Marrone. L’equity swap di Fiat era al centro della causa, il piemme provocò l’ad: “Possibile che in tutti questi mesi, mentre la sua squadra progettava nuovi modelli, lei non si interessasse delle manovre per sventare il pericolo della conquista del potere da parte degli istituti di credito? Come poteva lavorare sapendo che, forse, tutto quello sforzo sarebbe potuto essere vano?”.

Sergio Marchionne non mutò né espressione del viso né tono della voce e replicò: “Benvenuto nel mio mondo, signor pubblico ministero. Effettivamente mi capita spesso di lavorare correndo questi rischi. Se non ci fossero gli Agnelli me ne sarei già andato“. Questo il mondo di Sergio Marchionne, un altro mondo rispetto all’atlante di cerimonie e riverenze al quale erano abituati i fiattini, tutti, prima che, a Torino, si appalesasse il sannita-croato, figlio del carabiniere maresciallo Concezio e della profuga istriana Maria Zuccon.

Erano tempi grigi, come il colore di molte auto della casa, anonima la tinta e anonime le vetture. Marchionne ha avuto la fortuna, direi il privilegio, di essere il primo manager a non aver “conosciuto” e lavorato con Gianni Agnelli, per lui figura affascinante ma estranea. Il dato non è marginale, anzi è decisivo per l’ultima storia della Fabbrica Italiana Automobili Torino. La prima automobile di Marchionne fu una 500, bianca, acquistata dal maresciallo Concezio presso la concessionaria Fiat di Chieti, va da sé che l’aneddoto porta a facili voli di fantasia, così come la 124, sempre bianca, la Lancia HF, tutta roba griffata dalla real casa.

Marchionne ha saputo crescere a fianco degli Agnelli, in quanto gruppo, comunità araldica, famiglia, storia e leggenda, ma è riuscito nella mission impossible di far rinascere gli Agnelli stessi e la fabbrica assieme, risvegliandoli da un quasi rassegnato torpore piemontardo, dovuto al tramonto doloroso e anche tragico di Gianni&Umberto, in un quadro ancora drammatico con la morte violenta del loro padre Edoardo; con la scomparsa per precoce malattia di Giovanni Alberto, figlio di Umberto; con il suicidio, tenuto questo quasi nascosto, prima di Giorgio, fratello di Gianni e di Umberto, quindi di Edoardo, figlio di donna Marella e dell’Avvocato.

Ora il maligno ha aggredito non un membro della famiglia ma chi questa famiglia ha riportato nel circuito mondiale, dell’impresa, non certo del jet set.
C’è stato anche il tempo nel quale qualcuno azzardò l’ipotesi che Marchionne potesse comprarsi tutto il carro, per trasferirlo negli Stati Uniti, la sua terra di studio, di crescita, di affermazione.  Non è stato così, Elkann, come gli altri componenti la famiglia Agnelli, gli devono molto, la nuova luce imprenditoriale ha preso il posto dei lumini che servivano a celebrare ed onorare il prestigio e/o la fama che, però, non fanno business e Marchionne a questo ha badato, a costo, come ha fatto, di tagliare teste e corpi, di cancellare ozi e privilegi, di dare una struttura internazionale a chi si limitava ad applaudire il lancio di Duna e alla Bravo-Brava-Marea, tra fatui fuochi di artificio e muri e soffitti decadenti e decaduti.

Il silenzio degli Agnelli, per tenere fede una volta tanto in corretta traduzione al titolo del film “The silence of Lambs”, ha avvolto quest’ultimo anno di lavoro. Marchionne non ha voluto mollare né l’impresa, né l’impegno, la sua strategia progettuale era disegnata da tempo, il ritmo fiattino non ha, spesso, tenuto la velocità dell’abruzzese di Toronto. Oggi si fanno i conti, ripensando alle occasioni perdute, al tempo smarrito. Fiat ha cambiato l’insegna, Fca è una realtà che i nostalgici del bicerìn e dell’Avvocato, di Romiti e di Cantarella, fanno fatica ad accettare e a capire, ma appartiene tutta, per storia e volontà, a Sergio Marchionne.

Bastano la sua memoria, di qualche anno fa, per riassumere una storia unica: ”Ho cercato di organizzare il caos. Ho visitato la baracca, i settori, le fabbriche. Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il duemila e sette. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che, forse, non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un’istituzione del Paese in cui sono cresciuto”. Parole di Sergio Marchionne, figlio di Concezio, maresciallo dei Carabinieri.

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