Il prof. Vittorio Chiesa
Mobilità elettrica, in Italia vale lo 0,1% del mercato
Chiesa (Politecnico di Milano): “Manca una visione di sistema”
Nel 2016 sono state vendute nel mondo circa 800.000 auto elettriche (+40% rispetto al 2015) con una prevalenza sempre più significativa dei veicoli “full electric” (BEV), il 63% del totale contro il 60% dell’anno precedente. In Italia, invece, ne sono state vendute appena 2.560 per un valore di 75 milioni di euro, cioè lo 0,1% dell’intero mercato dell’auto, senza nessuna crescita (e dunque in controtendenza) rispetto al 2015.
Sono cifre che l’Energy&Strategy Group del Politecnico di Milano, diretto dal professor Vittorio Chiesa, ha stimato analizzando i dati certi e i trend di crescita della mobilità elettrica in Italia e nel mondo, producendo il primo rapporto italiano sul settore. Si tratta dell’E-Mobility Report, presentato al Politecnico di Milano, che oltre allo sviluppo del mercato dei veicoli elettrici ha misurato la crescita delle installazioni delle infrastrutture di ricarica. Proprio dal confronto tra le previsioni di crescita di queste due “componenti essenziali” dell’e-mobility è infatti possibile valutare la coerenza, e quindi la credibilità, del piano di sviluppo che anche il nostro Paese intende attuare entro il 2020, e che potrebbe portare il mercato delle auto elettriche a raggiungere 2,45 miliardi di euro, o addirittura 2 miliardi in più, a seconda della strategia adottata.
Il mercato delle auto elettriche, stato dell’arte e sviluppi attesi
Da gennaio a settembre 2016 le auto elettriche effettivamente vendute nel mondo sono state circa 518.000 (sia BEV, ossia i modelli full electric, che PHEV, gli ibridi plug–in), il 53% in più rispetto allo stesso periodo del 2015, anno in cui le vendite sono arrivate a 550.000. La crescita è ancora più accentuata se paragonata alle 317.000 vetture vendute nel 2014.
La Cina è il più grande mercato mondiale, con 225.000 auto elettriche vendute nei primi 3 trimestri 2016 e un’impressionante crescita del 118% rispetto allo stesso periodo 2015. Anche per gli Stati Uniti (109.000 unità vendute, + 33% rispetto al 2015) e per l’Europa (151.000 unità, + 23%) i dati sono piuttosto incoraggianti. Se guardiamo il Vecchio Continente, quasi 1 veicolo europeo su 4 è olandese. Segue la Norvegia, che rappresenta da sola circa il 18% del mercato. Francia, Regno Unito e Germania hanno “pesi” molto simili, rispettivamente il 12%, il 14% e il 12%. L’Italia invece arriva appena all’1% del mercato europeo, una percentuale inferiore persino a quella dei Paesi del Nord: in Svezia le immatricolazioni di veicoli elettrici hanno rappresentato il 2,4% del totale, in Olanda il 9,7% e in Norvegia addirittura il 23,3%.
I modelli che si contendono il mercato mondiale sono circa 50, di 15 case automobilistiche: la Nissan Leaf è la macchina elettrica (BEV) più venduta nel mondo grazie al grande successo che ha ottenuto in Europa e negli Stati Uniti. La Model S di Tesla, nonostante il prezzo elevato, è la seconda auto e possiede una quota di mercato significativa, circa il 7%. Interessante poi la presenza di case automobilistiche cinesi, in particolare la BYD Auto, che con i suoi modelli di punta copre quasi il 10% del mercato globale.
In Europa sono circa 20 i modelli BEV disponibili, prodotti da 12 differenti player, ma entro dicembre 2020 entreranno nel mercato altre 4 case automobilistiche (Honda, Opel, Porsche ed Audi) e l’offerta arriverà quasi a triplicarsi, fino a raggiungere i 54 modelli BEV.
Se è vero quindi che l’incremento del numero di modelli di auto elettrica è indubbio, è altrettanto vero che sembrano prevalere due diversi orientamenti, strategicamente differenti: il primo – di focalizzazione, scelto da Hyundai, Kia, Mitsubishi, Ford, Renault – concentra gli sforzi su un solo segmento (in genere quello delle berline compatte a due o tre volumi) facendo diventare elettrici la maggior parte dei nuovi modelli; l’altro – di diversificazione, scelto da Mercedes, Citroen, Nissan, Tesla, Peugeot ed Audi – prevede invece di sviluppare un numero limitato di modelli (1 o al massimo 2) in ciascuno dei segmenti coperti dagli operatori. Due scelte che hanno vantaggi e svantaggi diametralmente opposti.
L’assenza di operatori che abbiano abbracciato con decisione lo sviluppo dell’auto elettrica (se si eccettua Tesla) e la prevalenza di scelte ”attendiste” o di diversificazione del rischio possono significare che non ci si aspetti, entro il 2020, una crescita estremamente significativa del mercato europeo, e ancor più italiano.
Una delle ragioni che può spiegare il diverso andamento delle vendite delle auto elettriche è certamente la presenza di meccanismi di incentivazione. È stata condotta un’analisi comparativa tra 10 Paesi (Italia, Cina, Giappone, Usa, Francia, Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia, UK) misurando sia gli incentivi diretti all’acquisto, cioè una riduzione del prezzo del veicolo, sia quelli diretti all’uso e alla circolazione, che prevedono per l’utente dei bonus durante tutto il ciclo di vita del veicolo.
In Norvegia, non a caso uno dei Paesi con il maggior numero di immatricolazioni, sono disponibili incentivi estremamente «generosi», pari a circa 20.000 euro per i BEV e 13.000 per i PHEV. Anche i Paesi Bassi incentivano l’acquisto, soprattutto dei PHEV (9.500 €), e ciò spiega almeno in parte il boom di questi veicoli nel Paese. L’Italia si conferma inesorabilmente indietro, facendo segnare i controvalori più bassi: circa 3.000 euro per un BEV e 2.000 per un PHEV. Cina e Stati Uniti prevedono incentivi simili, rispettivamente di 8.500 e 9.000 euro per i BEV e di 5.000 e 5.500 per i PHEV.
L’infrastruttura di ricarica, scenario e prospettive
Sono 1,45 milioni i punti di ricarica censiti nel mondo a fine 2016, in forte crescita (+81%) rispetto agli oltre 800.000 punti del 2015 e 73 volte di più rispetto ai soli 20.000 del 2010. La crescita è stata tuttavia a due velocità: le colonnine pubbliche rappresentano oggi circa il 13% del totale (190.000 unità), +72% rispetto alle 110.000 del 2015; quelle private hanno invece indubbiamente trainato il settore, con una crescita di oltre 600.000 punti di ricarica nel corso del 2016.
Se si guarda alla distribuzione geografica, si nota che nel segmento delle colonnine private sono gli USA a guidare la classifica, con oltre il 32% del totale delle installazioni a fine 2016, seguiti dalla Cina e dal Giappone. In quelle pubbliche invece la Cina è leader indiscussa (31%), seguita da USA e Giappone.
In Europa sono stati installati complessivamente 70.000 punti di ricarica pubblici (37%) e circa 400.000 privati (30%). Se si mette in relazione il numero di punti di ricarica e il numero di veicoli circolanti nello stesso periodo si ottiene un rapporto medio pari a circa 0,86 veicoli per singola colonnina. In un mercato «maturo» tale rapporto si dovrebbe attestare attorno a 1 veicolo per punto di ricarica. A tale valore si avvicinano non a caso Paesi come la Cina (1,05 veicolo/punto di ricarica) e la Svezia (0,99).
L’Italia, con un indice di 0,66 veicoli elettici/punti di ricarica, conferma ancora una volta di essere particolarmente indietro. Nel nostro Paese, infatti, si possono stimare circa 9.000 punti di ricarica, di cui 7.000-7.500 privati (circa l’80%) e 1.750 pubblici (20%), cresciuti nell’ultimo anno di 2.500 unità (+28%, contro lo stallo dal 2013 al 2015).
Lo sviluppo del Piano nazionale per la ricarica in Italia
È il cosiddetto PNIRE (Piano Nazionale Infrastrutturale per la ricarica dei veicoli alimentati ad energia elettrica), redatto dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT), a governare lo sviluppo dell’infrastruttura di ricarica nel nostro Paese. L’obiettivo al 2020 è l’installazione di 4.500-13.000 punti di ricarica normal power (con un potenza pari o inferiore a 22 kW) e di 2.000-6.000 high power (superiore a 22 kW), la copertura finanziaria al momento è di 33,5 milioni di euro: il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti partecipa al cofinanziamento dei progetti presentati dalle Regioni e dagli enti locali, fino a un massimo del 50% delle spese sostenute per l’acquisto e per l’installazione degli impianti.
Nel Rapporto si è analizzato un campione significativo di progetti di infrastruttura di ricarica, con l’obiettivo di comprendere quale ne sia stata l’evoluzione dal 2012 (anno di entrata in vigore del meccanismo) ad oggi. Sono tanti, in questo ambito, i punti positivi da sottolineare.
Innanzitutto la composizione dei committenti, che si è evoluta dalla sola Pubblica Amministrazione a una compagine estremamente variegata, segno di un incremento dell’interesse verso la mobilità elettrica.Tra il 2012 e il 2013, infatti, superava il 95% la quota di progetti che aveva per committenti i Comuni, mentre appena il 5% era commissionata da GDO, centri commerciali, strutture ricettive, ecc., che in questa fase avevano giocato un ruolo quasi pionieristico.
Tra il 2014 e il 2016 risulta invece decisamente ridimensionato il ruolo della PA locale, che ”pesa” solo per il 57% dei progetti, mentre cresce quello degli operatori di punti di interesse (PDI), che moltiplicano quasi per 6 il loro peso (dal 5% al 27%). Compaiono poi per la prima volta sul mercato italiano, con una quota del 16%, alcuni soggetti “dedicati”, cioè operatori privati che intendono fare della realizzazione di infrastrutture di ricarica il loro business principale, come dei veri “distributori elettrici”.
I progetti del 2017 mostrano ulteriori novità, come la comparsa di gestori di carburante tra i soggetti interessati alla infrastrutturazione elettrica: un segnale, debole ma importante, del fatto che ci si aspetta una crescita del mercato. Questa evoluzione positiva non è stata tuttavia sufficiente a permettere all’Italia di guadagnare una posizione di prestigio nel panorama internazionale della modalità elettrica.
Quali sono stati dunque i punti di debolezza? “Innanzitutto, la ridotta capacità, almeno sino ad ora, di attrarre finanziamenti privati accanto a quelli pubblici per sviluppare le infrastrutture di ricarica – commenta Vittorio Chiesa, direttore dell’Energy&Strategy Group del Politecnico di Milano -. Si è passati da una fase iniziale in cui addirittura il 95% dei finanziamenti erano pubblici all’ultima rilevazione che vede tale quota scendere ‘solo’ al 72%, mostrando un contributo privato che non raggiunge nemmeno 1/3 del totale. Vi è poi l’assenza, non nuova purtroppo nel nostro Paese, di una visione ‘di sistema’. Una delle principali barriere alla diffusione su larga scala della mobilità elettrica è l’assenza di interoperabilità tra le infrastrutture di ricarica gestite da operatori differenti. Gli integratori di sistemi di e-mobility in Italia sono agli albori”.
L’integratore più conosciuto a livello europeo è la piattaforma tedesca «Hubject», fondata nel 2012 da BMW, Bosch, Siemens, Daimler. Attualmente conta 240 partner in 17 paesi differenti, connettendo circa 40.000 punti di ricarica in tre continenti (Europa, Asia e Oceania).
“Infine – conclude Chiesa – vi è l’assenza di coraggio nello sperimentare forme di ‘ecosistema’ avanzate, che invece sono già una realtà in altri Paesi. Si pensi ad esempio ad una partnership tra un operatore dell’infrastruttura di ricarica e un player dell’automotive che garantisca al cliente un’offerta completa di mobilità elettrica, comprensiva di auto e infrastruttura di ricarica domestica (con installazione inclusa). In questa soluzione il cliente paga una tariffa flat al mese che comprende il noleggio del veicolo elettrico, l’installazione della stazione di ricarica domestica e l’utilizzo di una app per la localizzazione e l’accesso all’infrastruttura di ricarica pubblica sempre gestita dal medesimo dell’operatore”.
Il potenziale dell’E-mobility in Italia: due scenari a confronto
Il Rapporto si chiude con l’analisi del potenziale dell’E-mobility in Italia, descrivendo due possibili scenari di sviluppo al 2020. Il primo è quello detto «EV pull», dove si ipotizza che il primo passo per l’affermazione del modello sia la vendita di auto elettriche attesa per i prossimi anni. Si è dunque partiti dalla stima, ottenuta attraverso interviste agli operatori di settore, del numero di veicoli elettrici previsti in Italia al 2020 e si è calcolato “a ritroso” il numero di colonnine necessario. Il secondo invece è «PNIRE push», dove si ipotizza che sia l’infrastruttura di ricarica a comandare i volumi del mercato.
Nello scenario “EV pull”, la stima dei veicoli elettrici immatricolati tra il gennaio 2017 e il dicembre 2020 in Italia è pari a 70.000 unità, con un quota di mercato che parte dallo 0,3% del 2017 (aumento del 300% rispetto al 2016) e arriva a circa il 2% nel 2020, per un controvalore in auto acquistate compreso tra 1,75 e 2,45 miliardi di euro contro i circa 75 milioni registrati nel 2016.
L’effetto di trascinamento tra veicoli e colonnine porta ad avere investimenti in infrastrutture di ricarica compresi tra 225 e 384 milioni di euro. È interessante sottolineare che nello scenario «EV pull» l’immatricolazione di 70.000 veicoli elettrici in sostituzione di altrettanti a combustione interna ridurrebbe l’emissione di CO2 da 136.000 tonnellate annue a 63.000 (-54%).
Nello scenario “PNIRE push”, invece, la stima delle colonnine installabili nell’ambito del programma PNIRE arriva a 4.500-13.000 punti di ricarica pubblici normal power e a 2.000-6.000 high power. Si ottiene quindi un numero di veicoli elettrici circolanti al 2020 pari a 130.000 unità (l’85% in più rispetto allo scenario precedente), con investimenti in infrastrutture di ricarica al 2020 compresi tra 337 e 577 milioni di euro e un controvalore in veicoli elettrici compreso tra 3,25 e 4,55 miliardi di euro.
I benefici ambientali sarebbero ancora più accentuati nello scenario «PNIRE pull»: 130.000 veicoli elettrici in sostituzione di altrettanti veicoli a combustione interna ridurrebbero l’emissione di CO2 da 253.000 a 138.000 tonnellate l’anno.
Il confronto tra i due scenari mette in evidenza abbastanza chiaramente lo scostamento tra i due metodi di calcolo, dovuto a una differente visione sull’andamento del mercato: il PNIRE ha l’ambizione di preparare un’infrastruttura per oltre 130.000 veicoli elettrici, mentre il mercato delle auto sembra non ritenere possibile andare oltre le 70.000 unità immatricolate nei prossimi 4 anni. Un’assenza di coerenza che desta qualche preoccupazione.
Gli esempi di altri Paesi virtuosi (come Giappone e Cina) dovrebbero portare a riflettere sulla necessità di un riallineamento, che può passare dal ridimensionamento del PNIRE verso un obiettivo di infrastrutture più in linea con quanto ci si attende dal mercato delle auto, da un rafforzamento dei sistemi di incentivazione per l’acquisto o da una soluzione “ibrida” che preveda lo spostamento di risorse destinate al PNIRE a favore dell’incentivazione all’acquisto, in modo da ottenere un bilanciamento degli obiettivi.