Mariella Mengozzi (Mauto): “Vocazione chef, ma ora come ingredienti ho le macchine”
di Roberta Pasero
I fotogrammi della memoria di Mariella Mengozzi, direttrice del Mauto, il Museo Nazionale dell’Automobile di Torino, hanno le sfumature del film “Novecento” di Bernardo Bertolucci: la campagna emiliana, i riti contadini, la storia di una famiglia patriarcale che ruota attorno alla tavola. Ed é in questa atmosfera quasi d’altri tempi nella casa dei nonni paterni a Castrocaro dove ha vissuto tutta la sua adolescenza, che si è plasmata la sua vocazione di chef.
Che mondo le sembrava quello contadino visto con lo sguardo di una ragazzina?
“Un mondo distantissimo dalla vita di città. Erano gli anni Settanta eppure le donne non si sedevano a tavola con gli uomini. Soltanto io ero ammessa perché ero una bambina, invece la nonna e le zie continuavano a cucinare. Non erano nemmeno previsti i posti a tavola per loro, tutt’al più si sedevano alla fine del pranzo”.
Quale era il piatto della tradizione di famiglia?
”La pasta all’uovo, con la sfoglia preparata ogni giorno a mano. Mio nonno, che é mancato a 95 anni, fino all’ultimo ha mangiato i tagliolini al burro tutte le sere. Mi ricordo che a tavola aveva una forchetta e un coltello lungo, tipo quello che serve per tagliare il prosciutto, e lo utilizzava per tutto, soprattutto per la carne perché la mia famiglia nei poderi coltivava frutta, grano, ma allevava anche i maiali”.
L’uccisione del maiale era una tradizione come in tutte le famiglie contadine?
“Ricordo discussioni accesissime per decidere quanti chili di salame o di salsiccia bisognava ricavare dal maiale. Ogni anno arrivava un omino zoppo con tutti i coltelli per dividere le parti. Questa lavorazione si faceva in uno dei poderi, veniva acceso il caminetto perché qualche parte come i ciccioli, doveva essere cotta subito”.
Era coinvolta nelle attività della campagna?
“Saltuariamente in qualche vendemmia o nella raccolta della frutta su terreni che venivano lavorati anche con trattori Lamborghini. Ma i miei genitori erano dell’idea che il nostro lavoro fosse studiare. Però ero coinvolta nella preparazione di alcuni piatti della tradizione, come i cappelletti a base di formaggio di ricotta, parmigiano, noci moscata e pochissima carne”.
E’ allora che le é nata la passione per la cucina?
“E’ stato guardando mia zia preparare ricette che andava a studiare, che sperimentava e che poi ho fatto mie. Come quella delle lasagne che non preparava in modo tradizionale, a strati: lei scottava il quadretto di sfoglia e lo condiva con un po’ di besciamella e dei funghi, e lo chiudeva come un fazzoletto. Ho imparato ad apprezzare i prodotti della terra, l’abilità nel cucinare attingendo da quello che cresceva nell’orto. Perché in campagna anche la cucina povera può contare sui tanti ingredienti della terra. E ho imparato ad appassionarmi non soltanto per la cucina ma anche per i sapori”.
L’arte di creare partendo dal poco che c’è. Crescere in campagna é stato un insegnamento anche nel lavoro?
“La campagna insegna a rispettare innanzitutto la parola data, ad accettare i tempi della natura e i suoi imprevisti, a tenere cura delle cose per farle durare. Tutto ciò mi ha formato tantissimo”.
Soprattutto in periodo come questo che senso ha il ritrovarsi a tavola?
“Ricordo che quando i miei nonni mi vedevano un po’ abbacchiata mi dicevano sempre “Mangia, mangia” perché mangiare aveva per loro un effetto terapeutico, come molte volte in effetti ha. Però per me é più importante il valore dello stare insieme, del condividere quello che cucino con le persone che amo. Io ho la famiglia a Modena e quando il fine settimana torno a casa ho il pensiero di cosa preparo, ci tengo per mio marito e per mia figlia, per esprimere il mio amore verso di loro. E anche per far vedere che ci sono”.
Ha una cucina da chef?
“Ho tutti gli attrezzi da professionista, la planetaria, l’attrezzo per fare la pasta, pentole e tegami a seconda delle ricette. Il mio piatto forte sono i passatelli da cuocere poi con il brodo di cappone che allevamio zio. E mi sbizzarrisco con i prodotti della terra che appena posso torno a prendere a Castrocaro perché hanno i sapori che ho scoperto nell’infanzia. Non potrei rinunciare a cucinare perché mi rilassa, perché é creativo, perché si preparano i piatti con le mani, quasi plasmando come fa un artista”.
La stessa passione che lei ha per le automobili iniziata con la sua prima macchina, una Fiat 500 L con il tetto apribile.
“L’automobile é un prodotto complesso, proprio come la cucina: é un concentrato di creatività, di passione, di tradizione, di prestazioni, di forme, di artigianalitá e di innovazione”.
C’è un’automobile che assomiglia a uno dei suoi piatti preferiti?
“L’Alfa Romeo Duetto mi ricorda, per forma e contenuti, una frittata. Preparata con ingredienti genuini, con inconfondibile sapore e stile italiano”.