Filiera automotive: quadro a tinte fosche

di Pierangelo Decisi, vicepresidente di Anfia Componenti

Quello che sta accadendo alla filiera automotive europea e italiana sfugge a ogni tentativo di descrizione semplice e sintetica. La complessità dello scenario che questo comparto trainante dell’economia si trova ad affrontare deriva dalla sommatoria di situazioni concomitanti, a loro volta molto complesse, che hanno generato una “tempesta perfetta” a cui le nostre imprese sono tuttora soggette e dalle sorti incerte e molto preoccupanti.

La transizione ecologica della mobilità avviata dalle istituzioni europee con un focus unilaterale sull’elettrificazione, sull’onda di un’analisi dei fenomeni più ideologica che scientifica, ha imposto all’industria uno shift tecnologico a ritmi insostenibili – che rischiano, con le proposte del pacchetto normativo Fit for 55, di diventare ancora più stringenti – senza tener conto dei pesantissimi effetti occupazionali, economici e sociali.

Perché non avviare, invece, un processo per step graduali, ispirato ai principi di neutralità tecnologica – solitamente da sempre fondamento della legislazione europea – e sostenibilità industriale e sociale, che consideri, in tema di abbattimento delle emissioni di CO2, elementi importanti come il contributo di alcuni carburanti rinnovabili a zero e basse emissioni, salvaguardando know-how e posti di lavoro, e la necessità di svecchiamento del parco circolante, la cui anzianità è la vera responsabile dei livelli di CO2 emessa dagli autoveicoli?

Un recente studio commissionato da Clepa (Associazione europea della componentistica) a PwC, mostra che raggiungere gli obiettivi del Green Deal europeo con un approccio concentrato sui soli veicoli elettrici mette a rischio 501.000 posti di lavoro nella catena di fornitura legata alla produzione di componenti per motori a combustione interna nell’Ue. Di questi, il 70% verrà perso già tra il 2030 e il 2035. Secondo la stima d’impatto fatta da Anfia sulla filiera automotive italiana, invece, sono a rischio il 30% delle imprese della componentistica e circa 60-70.000 addetti diretti.

La componentistica ha oggi in Italia un peso economico e occupazionale rilevante: circa 2.200 imprese per un totale di oltre 161.000 addetti diretti (compresi gli operatori del ramo della subfornitura) e un fatturato complessivo di 44,8 miliardi di euro. I nostri prodotti sono esportati e apprezzati in tutto il mondo, quasi la metà del fatturato deriva dall’export e la bilancia commerciale è positiva per un valore annuo di circa 5,5 miliardi di euro. La catena di fornitura italiana ed europea è fortemente integrata a livello internazionale.

E’ quindi strategico difendere la competitività del settore per il futuro della nostra industria e, in definitiva, delle nostre economie. In generale, il settore automotive, in Italia, è quello con il maggior moltiplicatore di occupazione, pari a 3. Significa che 10 occupati nelle imprese automotive della filiera industriale sostengono 20 occupati addizionali nell’economia del Paese.

Mentre la filiera automotive era alle prese con le difficoltà di questa rivoluzione tecnologica epocale, si è abbattuta sulle imprese prima la crisi Covid-19, con inauditi shock produttivi e di mercato, che ancora oggi ci accompagna come una sorta di convitato di pietra, variabile non prevedibile e non pianificabile; poi, a partire da fine 2020, anche la gravissima crisi delle materie prime (prezzi e quantità) e della logistica tuttora in corso, in parte legata alle dinamiche della pandemia, in parte derivante da fattori esogeni e, in tempi più recenti, l’impennata dei costi dell’energia. La filiera inoltre si trova una chiusura pressoché totale da parte degli OEMs a riconoscere questi aumenti, e tale situazione sta mettendo in ginocchio le nostre imprese.

Questi gravissimi problemi di approvvigionamento e rincari di microprocessori, acciaio e materie prime plastiche frenano o interrompono i flussi produttivi della componentistica e dei costruttori – a oggi vari impianti sono fermi e si ricorre alla cassa integrazione – e si riflettono, a cascata, sulle consegne ai consumatori finali. Per i semiconduttori, c’è stato un problema di domanda e offerta. Con il lockdown, gli impianti produttivi automotive hanno chiuso, mentre è cresciuta molto la domanda del settore dell’elettronica di consumo.

Quando le concessionarie hanno riaperto, gli stock si sono esauriti e si è creato un problema di offerta. I produttori di microchip sono concentrati nel Sud-Est asiatico: la Taiwanese TSMC detiene circa il 50% del mercato. Una riflessione su quanto può essere strategico avere degli insediamenti produttivi in Europa, non solo di semiconduttori è d’obbligo. Questo servirebbe  a limitare drasticamente la dipendenza dell’Europa dall’industria asiatica e avrebbe indubbi vantaggi in termini ambientali – un container che viaggia dalla Cina all’Europa emette un quantitativo di CO2 enormemente superiore rispetto a un container che arriva, ad esempio, dal Marocco. Trasportare un container dalla Cina al Mediterraneo arriva a costare anche 6 volte di più rispetto al 2020, oltre al fatto che i tempi di consegna sono raddoppiati.

Un quadro a tinte fosche: per il 2021, AlixPartners stima una perdita, a livello mondiale, di 7,7 milioni di veicoli prodotti, valorizzabile in circa 210 miliardi di dollari (circa 180,3 miliardi di euro) per l’industria automobilistica globale, che ribaltato sulla filiera si stima essere di tre volte tanto. Se la gravità della situazione dovesse protrarsi per tutto il 2022, potrebbe determinare un disastro economico di proporzioni superiori a quelle della crisi del ’29 o della crisi economico – finanziaria post Lehman, con impatti sociali mai visti prima nell’era economica moderna.

E’ urgente che la classe politica si dedichi a un’analisi approfondita dell’intreccio di tutte queste difficoltàe che, con il supporto dei rappresentanti della filiera industriale, metta in campo un serio piano per la transizione automotive.

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