di Pier Luigi del Viscovo, direttore del Centro studi Fleet & Mobility
Conosciamo il problema. Non sappiamo se da Glasgow arriverà finalmente una soluzione. L’esito dei precedenti round del Cop non induce all’ottimismo. Dal primo del 1995 a Berlino fino all’ultimo di Madrid, è stata una sequela di mandati, protocolli, piattaforme, rotture e accordi, mentre le emissioni di gas serra serenamente aumentavano e con esse il riscaldamento.nDal punto di vista europeo è molto semplice. Dopo aver accumulato CO2 per oltre un secolo con la rivoluzione industriale, dagli anni ’80 stiamo riducendo) le emissioni, anche avendo dislocato le industrie in altri continenti. Oggi con l’8% delle emissioni globali non siamo il problema e nemmeno la soluzione.Tuttavia, la nostra coscienza etica, assistita da un invidiabile benessere, ci dispone a rinunciare a qualche comodo privilegio, almeno a parole. Nei fatti, è bastata la chiusura di alcune fabbriche, causate dal passaggio alle auto elettriche, e il caro-bollette, pur riconducibile solo in parte alle politiche ambientali, per svelare che il pianeta vorremmo salvarlo sì, ma avevamo capito che fosse gratis. Piccole frizioni tra ricchi, se guardate dalla prospettiva di altri popoli.
Ora si punta il dito contro la Cina, anche a ragione. Fino al 2000, anno di ingresso nel WTO, le sue emissioni, seppure in crescita, erano più o meno uguali a quelle europee. In vent’anni sono più che triplicate e ora rappresentano quasi il 30% di tutta la CO2 antropica. Per dare energia al poderoso sistema industriale, il gigante asiatico brucia tanto carbone e ha appena avviato la costruzione di decine di nuove centrali.
Non va bene, per noi che vogliamo lasciare ai nipoti un pianeta degno in cui vivere. Però, grazie a quelle industrie, 850 milioni di cinesi sono emersi dalla povertà assoluta. È probabile che a loro non dispiaccia come sono andate le cose. Invece di lamentarci che Xi Jinping non si sia seduto a Glasgow, chiediamoci cosa avrebbe da portare al tavolo.Dopo un pasto e un tetto assicurati, i suoi cittadini chiedono magari un frigorifero e che costi il meno possibile, quale che sia l’energia impiegata. Per la Cina fissare il picco delle emissioni al 2030 significa: dobbiamo ancora crescere e aumentare la nostra potenza economica e militare, per affrontare la grande contesa del Pacifico. È questo il livello della sfida politica di Cop26, non un club di amici ma un tavolo di concorrenti che tirano per dare ai rispettivi popoli un vantaggio nell’aumento del benessere, che però a causa del clima potrebbe diminuire per tutti se corriamo troppo.
Ridurre le emissioni si può, ma ha un costo. A chi si può chiedere di pagarlo? È questo il busillis. Tra Asia e Africa c’è ancora un miliardo di persone in povertà e proprio loro, vivendo sulle coste equatoriali, soffriranno di più. Noi lo sappiamo e pensiamo al futuro scommettendo sulla CO2, ma loro manco ce l’hanno un futuro e puntano alla sopravvivenza. A questi esseri umani cosa diciamo di star buoni e aspettare una scodella di riso, se arriva? No, questo non è un salotto perbene in cui sfoggiare civiltà e ideologie, questa è la vita vera e impone serietà e concretezza. Noi occidentali siamo campioni di relativismo sulla gender diversity, ma inciampiamo se a dividerci è il cibo o gli antibiotici. La politica deve fermare la crescita delle emissioni, ma senza frenare la vita e i suoi consumi, a cominciare da quelli di base.
Nel 2000 eravamo 6 miliardi e ora andiamo per gli 8. Agricoltura e allevamenti sono responsabili per il 18% della CO2, mentre la fetta più grande (57%) viene dalla produzione di energia, destinata all’industria ma pure alle abitazioni, agli uffici, alle attività commerciali e ad altro. Navi, aerei, bus e camion pesano per un ulteriore 12%. Le auto il 4%, di cui quelle circolanti in Europa intorno all’1%. Fermarle darà tanta soddisfazione, ma non meno emissioni, soprattutto finché le fonti rinnovabili coprono meno di un terzo dell’elettricità.