Con le auto elettriche i brand torneranno “commodities”?

di Riccardo Bellumori

L’attuale differenziazione e distinzione del mercato auto in brand ci appare come un livello evolutivo nato da poco, nel passaggio di stato del prodotto auto da “commodity” a “status symbol” a “emanazione di un brand”.

Una commodity, voglio ricordare in sintesi, è un prodotto generico ampiamente disponibile sul mercato che non si differenzia da quelli concorrenti, agli occhi del potenziale cliente: un bene indifferenziato che rischia dunque di essere facilmente intercambiabile. Un dramma, per la ricerca costante della distinzione e della fidelizzazione da parte di tutti i costruttori, che alla luce della equazione: Qualità del Prodotto + Corporate Image e valori + Posizionamento sul Mercato”, sono finalmente stati percepiti come Brands, in luogo e talvolta a discapito di altri.

La prima evoluzione del prodotto auto da “commodity” a “status” si ebbe con la proliferazione delle “griffe”, Vi ricordate? Ve le ri-elenco, perché alcune di queste “griffe” hanno segnato la storia.
Si va dalle firme in grado di “nobilitare” prodotti di estrazione popolare (Ghia per Ford; Gordini per RenaultCooper per l’inglese Austin/Mini, ma nel Gruppo BMC anche “Vanden Plas” e, successivamente, la “Sterling Motor” firmarono parecchie versioni speciali; Matra che per un periodo finì per diventare la “griffe” di Peugeot/Talbot), fino alle griffe di eccellenza per marchi già eccellenti: Mulliner Park per Rolls-Royce; AMG, che da elaboratore indipendente finì per griffare sostanzialmente tutte le sportive Mercedes dalla metà degli anni ’90.

Daimler, che da marchio produttore controllato da Jaguar  (ma parallelo a quest’ultima) finì per “firmare” le versioni più esclusive della Casa del Giaguaro; e “Le Baron” (un antico produttore di carrozzerie esclusive) per le versioni di pregio di Chrysler; ed  Eagle  che rappresentò praticamente la divisione estrema di AMC a opera di Dan Gurney; ante-litteram la stessa “Cobra” – da versione sportiva elaborata da Carrol Shelby per il piccolo marchio inglese AC (controllato da Ford) – divenne una vera e propria linea di produzione quando la Casa di Dearborn assorbì il piccolo costruttore; e, infine, il Giappone, dove spiccava la Mugen Power per Honda, senza dimenticare che AMG, da elaboratore indipendente, finì per griffare sostanzialmente tutte le sportive Mercedes dalla metà degli anni ’90. Per concludere, probabilmente, le “firme” che tutti noi ricordiamo: la “M” di Motorsport, la divisione sportiva di Bmw che firmava dal 1972 le versioni sportive della Casa bavarese; e, ovviamente, Abarth per Fiat.

Ogni anno la società di consulenza Interbrand” pubblica la classifica dei brand percepiti per valore (prettamente economico, in questo caso), classifica che nel 2018 vede Toyota essere per il secondo anno consecutivo il marchio di maggior valore nel comparto industriale auto e il settimo marchio industriale in classifica generale, davanti a Mercedes-Benz e via via a tutte le altre in classifica.

Se per semplificazione estrema e azzardata assimiliamo il caro Giappone alla platea degli “Automotive Country” del cosiddetto “Vecchio Continente” possiamo dire che questa platea di marchi costruttori, nel momento di massimo sviluppo del mercato in “Occidente”, alla fine degli anni ’80, ha potuto “inoculare”  presso una clientela potenziale al suo massimo punto di maturità e cultura di acquisto un concetto nuovo e superiore a quello di “status symbol”: quello della “Qualità Totale”, roccaforte ideologica della definitiva evoluzione in brand di un prodotto e/o di un marchio. 

Ma, poi? Poi, dagli anni ’90, l’evoluzione industriale cinese, unita alle prime trasformazioni societarie (fusioni e acquisizioni) tra marchi e gruppi auto occidentali, la irresistibile ascesa dei brand tedeschi anche grazie al “marco forte”; e infine la grande crisi dei “mutui subprime” e l’avvento di una coscienza ecologista rinforzata, se mai ce ne fosse stato bisogno, dal recente scandalo del “Dieselgate”.

In tutto questo, con la “valanga Tesla” a far vacillare le già scarse certezze dei costruttori, e la iperattività della Cina (leader mondiale della mobilità elettrica con circa 110 produttori a regime, più varie e molteplici Start Up dal futuro variegato), è evidente che trattare “l’esperienza di acquisto” di una “full electric” con i parametri dialettici e con i paradigmi commerciali del mercato “convenzionale” è davvero un controsenso. Come lo sarebbe misurare il “Value for Money” (quella sorta di “equazione sensoriale” che consente di percepire di aver speso il giusto in riferimento alle qualità e alle caratteristiche del prodotto acquistato) in termini che per il mercato auto elettriche sarebbe desueto e obsoleto.
Perché se nel mercato a tecnologia tradizionale (motore endotermico) la condizione prevalente di acquisto si divide nel target potenziale tra “Brand” e “Value for Money”, nel comparto elettrico la discriminante ancora prevalente è legata sia alla possibilità di “gestire” praticamente una tecnologia ancora poco diffusa, sia all’attenzione verso la tenuta dell’investimento nel tempo. Value for Efficiency”, appunto. Una dimensione dove a valere sono gli aspetti legati alla accessibilità ai dati tecnici, al benchmark in un mercato concorrenziale, alla facoltà di scegliere dove comprare e dove far curare la propria auto. Con una domanda chiave: nel complesso delle attività necessarie per far vivere una auto elettrica, “chi” risponde per “chi”, e “chi” si sostituisce a “chi” rispetto al mercato e all’industria convenzionale?

Pensate all’auto elettrica (protocolli di ricarica, uniformità degli accessori e dei supporti tecnici di funzionamento e di ricarica, brevetti, etc..) e al suo “ciclo di vita” che dipenderà essenzialmente dalla efficacia di risposta di queste componenti vincolate tra loro nella funzionalità dell’auto. Un gruppo propulsore (eventualmente) fornito da un soggetto terzo al marchio, una rete di ricarica difficilmente in concorrenza (poco probabile vedere disseminate sul territorio colonnine di un numero rilevante di operatori), ma gestite da un soggetto terzo al marchio; colonnine che ricaricano pacchi batterie anch’essi (presumibilmente) forniti da un soggetto terzo al brand costruttore. In concreto, un sistema integrato “marchio auto elettrica+fornitore delle batterie+ fornitore punti di ricarica+fornitore telematica di servizio”: in cui, per la percezione del potenziale cliente, l’unico riferimento noto o di interlocuzione costante sarebbe il solo marchio di auto, portando con ciò l’immagine del marchio auto da “brand unico” a “capofila” o provider” della catena integrata sopra elencata. Con un interrogativo: chi sarà il soggetto unico responsabile per un intoppo alla catena di “providing” di cui sopra? E soprattutto, non si rischia quello che ho accennato all’inizio di questo articolo, che cioè l’auto elettrica, in assenza di una piattaforma di valori tecnici ed emotivi tangibili oggettivi, possa diventare un bene indifferenziato che rischia dunque di essere facilmente intercambiabile?

Ecco il rischio: l’avvento dell’auto elettrica, da tempo annunciato, auspicato, caldeggiato, rischia di mettere in crisi capisaldi commerciali nati nella fase di estrema maturazione del mercato dell’auto occidentale, con il rischio di “rimescolare” le “carte” e riportare alcuni brand nella originaria figura di produttori di “commodities”.

 

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