di Anastasia Petraki, Head of Policy Research, Schroders
Nella corsa verso il “Net Zero”, nessuna area del mondo sta ricevendo tanta attenzione quanto la Cina. La copertura mediatica dei piani della Cina di smettere di finanziare nuove centrali a carbone all’estero è indicativa di come ogni singolo annuncio sulla politica climatica venga analizzato e discusso. La ragione è semplice. Il mondo ha bisogno che la Cina contribuisca alla riduzione delle emissioni globali di carbonio. Si tratta del maggiore emittente, seguito da Stati Uniti, Unione Europea (compreso il Regno Unito), India, Russia e Giappone. Ma ancora più rilevante, la Cina è diventata il maggiore emittente in un periodo di tempo molto breve.
Mentre nei primi anni ’90 gran parte del mondo sviluppato raggiungeva il picco di emissioni, la Cina (ma anche l’India) iniziava il suo processo di industrializzazione, con una rapida crescita economica e maggiori emissioni di carbonio. Quindi, anche se per esempio il livello di emissioni degli Usa è rimasto stabile è quello dell’Ue si è ridotto dagli anni ’90, le emissioni della Cina sono quadruplicate.
L’annuncio della Cina, a settembre 2020, di impegnarsi a raggiungere zero emissioni nette di carbonio entro il 2060 ha sorpreso alcuni, soprattutto per il fatto che altre importanti economie come Usa e Australia non avevano ancora fissato target simili. Ci sono state anche critiche rispetto alla decisione cinese di concedersi 10 anni di più rispetto ad altre aree, come l’Ue, che mira a raggiungere l’obiettivo “Net Zero” entro il 2050.
Tuttavia, in questo dibattito, vengono spesso ignorati due elementi. Il primo è che i Paesi misurano le proprie emissioni e fissano dei target in base alla produzione, ma un altro modo sarebbe di guardare alle emissioni sulla base dei consumi, ovvero emissioni aggiustate per gli scambi commerciali. Quindi se un prodotto viene esportato in un altro Paese, allora le emissioni legate alla produzione verranno contate tra quelle del Paese importatore. Essendo la Cina un esportatore netto, le sue emissioni legate ai consumi sono inferiori rispetto a quelle legate alla produzione.
Il secondo punto è quanto siano in realtà ambiziosi i target di ‘Net Zero’ della Cina, soprattutto se si considera a che punto si trova ora e quanto tempo si è concessa per raggiungere tale obiettivo. Mentre altre regioni come l’Ue hanno raggiunto il picco delle emissioni nel 1990, la Cina non l’ha ancora raggiunto e prevede di farlo nel 2030. Quando lo farà, il livello di emissioni sarà probabilmente doppio o triplo rispetto al picco dell’UE (Regno Unito incluso). Ciò significa che la Cina dovrà gestire la transizione in metà del tempo rispetto all’Ue, coprendo un livello più che doppio. La Cina avrà anche 15 anni in meno a disposizione rispetto agli Usa.
Il fatto che la Cina abbia una transizione più lunga da affrontare e meno tempo a disposizione implica che dovremmo aspettarci da Pechino il cambiamento più radicale e interventista in termini di politiche ‘green’ e finanza sostenibile. La transizione implicherà cambiamenti strutturali all’economia cinese, come una riduzione significativa della produzione industriale e un cambiamento notevole del mix energetico, ambito in cui vedremo un allontanamento abbastanza rapido dal carbone. Boston Consulting Group stima che il costo della transizione sarà compreso tra 13.500 e 15.000 miliardi di dollari entro il 2050, circa il 2% del Pil cumulativo cinese nel periodo 2020-2050.
Di conseguenza, anche se l’Ue viene spesso considerata il leader della corsa verso il “Net Zero”, le azioni più radicali potrebbero arrivare dalla Cina. Pechino potrebbe diventare uno dei leader globali delle politiche sul cambiamento climatico nei prossimi decenni. Se avrà successo, la transizione della Cina dimostrerebbe alle altre economie emergenti, come India e Russia, che si tratta di un obiettivo raggiungibile.