Aversa (AlixPartners): “La Fondazione Bocelli mi è entrata nel cuore”
di Roberta Pasero
Lui è un businessman, l’altro una star dello spettacolo. Lui lavora per aziende di profitto ad alta intensità di capitale, l’altro è un esperto di no profit ad alta intensità di emozioni. Due vite parallele quelle di Stefano Aversa, presidente della società di consulenza internazionale AlixPartners, sempre in prima linea anche nelle fusioni e nel salvataggio delle aziende automotive, e quella di Andrea Bocelli, la voce italiana più amata nel mondo. Due esistenze che avrebbero potuto non incontrarsi mai.
E invece è proprio da Bocelli che comincia la sua doppia vita, quella di manager dalle missioni impossibili e quella di presidente della generosità, al vertice della Andrea Bocelli Foundation, una Fondazione votata a dare risposte concrete di aiuto al prossimo.
“Le cose belle quasi sempre nascono per caso, inaspettate. Però se succedono è perché uno le coltiva ed è pronto a cogliere certe occasioni. Tutto è iniziato al World Economic Forum di Davos nel 2015, dove Bocelli ritirò il Crystal Awards, un premio prestigioso assegnato a un artista di rilievo globale. Ci siamo conosciuti, parlati, piaciuti e poco tempo dopo mi contattò sua moglie Veronica per chiedermi se volevo occuparmi di sviluppare e lanciare maggiormente la loro Fondazione nata nel 2011. Diventammo amici e quando presentai la governance, dissi che a quel punto bastava un bravo presidente per stimolare adeguatamente la crescita della Fondazione”.
E lei si è trovato presidente quasi senza volerlo.
“Proprio così. Gli dissi: “Non posso farlo per tre motivi: abito a Londra, non ho tempo e non sono esperto di queste cose, quindi se vuoi ti aiuto a trovarne uno adeguato”. Mi rispose che si trattava solamente di due o tre riunioni l’anno, così, visto che è difficile dire no a Bocelli, accettai scoprendo ben presto che l’impegno era ben diverso: erano i fine settimana, le sere, le presenze sul campo. Voleva dire soprattutto togliere del tempo alla mia famiglia”.
Perché ha accettato?
“Perché avendo avuto molta fortuna nella mia vita e nel lavoro, riuscire a restituire una parte di questa fortuna e mettere a disposizione degli altri le mie capacità mi riempiva e mi riempie di entusiasmo. E perché più si dona agli altri e più si riceve, e quello che si riceve vale molto di più”.
Quale missione insegue la Fondazione Bocelli?
“Non tanto quella di aiutare i più bisognosi, che pur è una missione nobilissima, ma di assicurare a chiunque abbia talento di svilupparlo e magari di avere successo un giorno. Bocelli, che è uomo di grande profondità, dice che è un demerito per chi ha avuto in dono da Dio un talento, non svilupparlo. E lui è un esempio, è un vero moltiplicatore di talenti” .
Una fondazione dai grandi numeri e con in portfolio realizzazioni importanti.
“Nel 2019 abbiamo raccolto 7 milioni di euro. Oggi abbiamo 5 scuole a Haiti, più 3 ricostruite nelle Marche dopo il terremoto del 2016: la scuola media a Sarnano, la scuola primaria e dell’infanzia a Muccia e l’Accademia Musicale di Camerino. Scuole di eccellenza che rappresentano la rinascita culturale di un territorio. E poi ci sono le borse di studio, gli atelier e i cori musicali”.
Anche lei ama la musica?
“E’ la mia grande passione. Ho suonato il pianoforte per 15 anni e, nonostante non sia mai stato un concertista e un vero talento, mi sono affacciato alla musica classica mentre l’opera l’ho conosciuta ai massimi livelli proprio grazie a Bocelli, incontrando grandi nomi della lirica, come Placido Domingo. Ho riscoperto il pianoforte in questi ripetuti lockdown. Io normalmente prendo dai 100 ai 200 voli in un anno, nell’ultimo soltanto 5. Dunque suonare il pianoforte mi ha aiutato a uscire idealmente da casa almeno con la testa. Perché la musica ha un potere incredibile di estraniare e di curare l’anima”.
E di consolare anche chi non ha nulla. Com’è capitato con un concerto improvvisato di Bocelli a New York.
“Fu una piccola pazzia. Perché Andrea è così, una persona curiosa di tutto e che non ha paura di nulla. Qualche anno fa eravamo sulla Quinta Strada e io gli raccontavo cosa c’era attorno a noi: clochard, homeless, persone che stavano al freddo e sembravano aver perso tutto, anche la dignità. “Dovremmo fare qualcosa”, mi disse. Gli risposi che un giorno avremmo potuto improvvisare un suo concerto a Times Square per raccogliere denaro. “Facciamolo adesso”, mi propose entusiasta. Arrivammo sulla piazza e si mise a cantare accompagnandosi con una chitarra. Io scrissi un cartello: “Per gli homeless della Quinta Strada” e lo misi nel fodero della chitarra. All’improvviso si formò un nugolo di persone incredule che continuavano a filmare col telefonino Bocelli che cantava e a riempire la custodia di dollari. Un poliziotto voleva mandarci via perché non sapeva chi fosse Bocelli, però Andrea riuscì a cantare un quarto d’ora e a raccogliere 1.000 dollari. Tornammo sulla Quinta Strada e regalammo l’incasso a due senzatetto particolarmente bisognosi, in modo che potessero dormire al coperto per tutte le vacanze di Natale”.
Il suo lavoro così appassionante nella Fondazione è d’ispirazione per la sua professione?
“Mi permette di tenere i piedi per terra facendo il mio lavoro nel business. Quando uno, per esempio, va a Davos in un ambiente superselezionato di grande potere, si può illudere che la vita vera sia quella lì”.
E invece la vita è altrove.
“E’ quella di Haiti dove non esiste altro che quello costruito da noi e da alcune associazioni di volontariato. Abbiamo progettato 5 scuole in mezzo alla giungla, un impegno non facile, a cominciare dalla sicurezza: siamo stati costretti a muoverci con un’ambulanza facendo finta di essere medici per non correre rischi eccessivi”.
Siete riusciti a dare un futuro a tanti bambini che non avevano speranza nel domani.
“Abbiamo offerto a 3.000 bambini la chance di avere un’educazione che è alla base della qualità della vita. Non è stato facile. Abbiamo dovuto convincere i genitori, offrendo loro del riso, a mandare i figli piccoli a scuola e non a lavorare. Abbiamo costruito scuole di strada, pensando ai progetti, portando i materiali e le competenze, ma lasciando che fossero loro a costruirle perché le sentissero come proprie, in modo che fossero anche punti di aggregazione. Per farlo ci siamo ispirati al pensiero inclusivo di Giorgio La Pira: coinvolgere le popolazioni partendo dai loro bisogni reali”.
Regalare agli altri una parte di sé ha cambiato il suo sguardo?
“Ho imparato a riconoscere l’uomo e non il ruolo di potere che riveste. Questo mi permette di parlare direttamente alla testa e al cuore di chi ho di fronte, con rispetto, ma senza averne soggezione. Ho capito che le persone sicuramente eccezionali in ambito professionale possono avere debolezze come tutti. Occuparmi di chi è in una situazione di disagio mi aiuta a mettere tutto in prospettiva e anche a mantenere la calma, a essere più indulgente, a ritrovare un equilibro. E a prendere molto sul serio quello che faccio, ma non troppo sul serio me stesso”.
Non ha mai la tentazione di dire basta con il suo lavoro per dedicarsi totalmente alla Fondazione?
“Non posso dire di non averci pensato. Ogni tanto succede. Però quando si è in un meccanismo che richiede dalle 12 alle 16 ore di lavoro è difficile smettere. E poi mio padre, generale dell’Esercito, mi ha inculcato un senso del dovere enorme. Sicuramente diminuirò l’impegno professionale, trasmettendo conoscenze, compiti e ruoli in una sorta di staffetta per poter dedicare in modo graduale ancora più impegno alla Fondazione, due mondi sinergici perché ormai nel business ha sempre più importanza l’impegno sociale”.
La sua è una vita parallela destinata a durare per sempre.
“E’ quello che vorrei. Una volta ero a chiacchierare con il presidente dello Stato di Israele, Shimon Peres, che aveva quasi 90 anni. Mi disse una frase che non dimenticherò mai: “Si diventa vecchi soltanto quando il numero dei ricordi supera il numero dei sogni”. Ecco, anch’io vorrei avere più sogni per sempre”.