Crisci: “ La mia vita a ritmo di blues”

di Roberta Pasero

Lui e l’altro. Il boss e l’americano. Lui, quello nella foto con gilet e cappello a tesa stretta, é Michele Crisci, presidente e amministratore delegato di Volvo Cars Italia e presidente di Unrae, l’Unione Nazionale Rappresentanti Autoveicoli Esteri. Ma é anche il boss, così viene definito, dei The Bluemood, voce e chitarra di una band, cinque musicisti e una vocalist, che attraversa la storia e tutte le sfumature del blues. L’altro, ciuffo biondo ribelle e t-shirt nera, é Bob Lonardi, detto l’ “americano”, direttore comunicazione del brand svedese, che non diresti aver fatto altro nella vita che il lead guitar & resonator della band.

E’ il boss, Michele Crisci, che ci racconta la sua vita parallela travolta dal blues. La storia di un amore che, tra riff elettrici e atmosfere acustiche, attraversa gli stati d’animo della musica black. E anche i suoi.

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Una passione scritta sulla partitura del suo Dna.

Sí, la musica fa parte di me. Un amore trasmesso da mia mamma che in gioventù era una cantante lirica. La ricordo cantare in casa, in particolare l’Ave Maria di Schubert, accompagnandosi al pianoforte che anch’io ho iniziato a suonare a 7 anni. Poi ho preso in mano la chitarra e alle medie ho cominciato a suonare in piccole band”.

Mai pensato di fare il musicista nella vita reale?

No. Ho sempre ritenuto fosse una passione che mi avrebbe comunque accompagnato per sempre. Anche quando all’università non avevo più un gruppo, non ho mai smesso di suonare: compravo chitarre, trasformavo la casa in un piccolo studio in modo da sovrapporre le tracce, arrangiare e incidere brani. Cercavo sempre di essere dentro alla musica anche soltanto facendo il servizio d’ordine all’Arena di Verona, la città dove vivo. Mio padre, militare, si augurava che lavorassi con la spada, mia madre con il pianoforte, pensavano facessi il militare o il concertista. Ho scelto altro, però è il musicista a prevalere sempre in me”.

Anche perché la musica é rientrata nella sua vita andando a lavorare in Volvo.

“Bob Lonardi e io abbiamo scoperto di avere la stessa passione e quasi da subito ci siamo messi a suonare insieme. Poi la svolta é stata nel 2013, quando alla sua festa di compleanno ha chiamato tutti gli amici musicisti in modo da tenere un concerto per gli altri invitati. Alla fine della serata ci siamo chiesti: “Perché non formiamo una band e giriamo per concerti?”. E dopo una partenza lenta così é stato”.

Nasceva The Bluemood: un disco già inciso, Pump Your Blues, un altro in uscita il prossimo inverno, mini tournée in Italia e in Francia, anche in luoghi sacri come il Blue Note di Milano. Una band con musicisti che, però, abitano a centinaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro.

Non è facile, però la passione può tutto. Il tastierista abita a Bologna, batterista e bassista a Milano, chitarrista in Francia, io a Verona. Studiamo moltissimo, ci mandiamo tracce musicali e partiture, e poi proviamo un weekend al mese in sale prove a Monza o a Bologna, pure per preparare i concerti. In tutto una decina di date l’anno, anche per beneficenza, i più recenti nelle scorse settimane, in Francia, vicino a Aix-en-Provence, e a Torino all’aperto. Facciamo tutto da soli, dai promoter al montaggio e smontaggio del palco. Molto dispendioso da un punto di vista fisico, peró la fatica é ripagata dalle emozioni”.

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Durante i concerti come lo raccontate il blues?

Ripercorriamo con la musica e le parole la sua storia dagli anni Venti ai giorni nostri. Raccontiamo chi era il bluesman, un viaggiatore spesso mezzo delinquente i cui brani narrano la storia del Delta del Mississippi. Partiamo da quando il blues veniva suonato con strumenti di fortuna, le chitarre, per esempio, con coltelli o colli di bottiglia. Poi il nostro viaggio prosegue fino a Chicago dove il blues si è elettrificato, per arrivare all’Inghilterra con le contaminazioni blues dei Rolling Stones e di Eric Clapton, e al Sudamerica con musicisti straordinari, come Santana, che naturalmente non ha nulla a che fare con il blues, ma che ha radici profonde nel blues”.

Non è difficile togliersi la divisa del bluesman e rimettersi giacca e cravatta e viceversa?

Mi diverte avere una vita parallela. La difficoltà è essere credibile in campo musicale perché nel lavoro spero di aver acquisito con gli anni un po’ di credibilità. Anche se siamo dilettanti abbiamo passione e consapevolezza di voler fare bene. Perché qualsiasi cosa si faccia, lavoro o hobby, è fondamentale metterci sempre il massimo dell’impegno. Quello che si fa deve riuscire bene, soprattutto nella musica che obbliga a confrontarsi con il pubblico. Dalla prima nota deve passare la serietà, altrimenti tutto è ridotto a un gioco”.

Chi viene ai vostri concerti?

“Di solito sono appassionati dai 40 anni in su che amano il sound anni Settanta, perché la nostra musica ha molte sonorità di quegli anni. Suoniamo tutto dal vivo, senza basi preregistrate, quello che si sente é quello che avviene sul palco. A questo ci teniamo tantissimo. Non seguiamo rigidamente delle partiture, ma cerchiamo di inventarci qualcosa di nuovo, trasformando i concerti in vere jam session. C’è una playlist, una scaletta che seguiamo, però poi i brani non durano mai lo stesso tempo, molto dipende dalla risposta degli spettatori”.

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Mai stati fischiati?

No. Certo é più facile quando gli spettatori sanno che il concerto é dedicato alla storia del blues. Quando, invece, andiamo a suonare in posti dove il pubblico non conosce il nostro repertorio, bisogna prima scaldarlo perché non si sa come può reagisce alla nostra musica”.

Una sfida continua.

Anche emozionante. Perché é capitato che ai nostri concerti venissero personaggi del mondo musicale, come Franco Mussida, ex chitarrista della PFM, il maestro Mazza, Dori Ghezzi. Quando arrivano musicisti veri come loro capiscono subito se ci sai fare davvero. E tutti si stupiscono della nostra resa sul palco, anche se non siamo professionisti e, dunque, non abbiamo le sofisticazioni di chi fa musica per mestiere”.

Avete dei riti in palcoscenico?

“Molti di noi si vestono uguale. Io, per esempio, metto sempre lo stesso gilet, poi cerchiamo anche di avere sempre la stessa posizione sul palco, io e Bob sempre alla stessa distanza, Bob alla mia sinistra io alla sua destra”.

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Lei é un professionista dei motori: musica e viaggio che rapporto hanno nella sua vita e cosa ascolta quando é al volante?

Vivo a Verona e lavoro a Bologna, quindi trascorro ore e ore in auto, e senza musica non ci riuscirei. Normalmente ascolto pezzi suonati da altri per prendere spunti, molto jazz, rock, poca musica moderna; tra gli italiani Zucchero che é di grande ispirazione, Giorgia, Elisa perché hanno molte facce blues. Poi le band storiche che hanno fatto secondo me la storia della musica, come i Rolling Stones, i Queen, Santana, ma anche Eric Clapton, Buddy Guy”.

Erano gli idoli della sua adolescenza?

In assoluto lo erano i Queen. E anche i Pink Floyd che pur essendo di un genere completamente opposto se si leggono alcune partiture dei loro brani più famosi si scopre che sono partiture blues. Poi con l’arrivo di David Gilmour hanno virato verso sfumature differenti però fondamentalmente é rimasto il blues”.

Senza musica non si viaggia, soprattutto non si vive. Quale swing regala in più alla vita?

Assolutamente non si vive, perché la musica non è soltanto un linguaggio universale, ma riesce soprattutto a condurre la mente a pensieri e riflessioni, a nostalgie e atmosfere assolutamente magiche incastonate tra le note. Senza la musica la vita non avrebbe ritmo, non avrebbe un procedere emozionante, sarebbe piatta e monotona”.

A che volume si ascolta la musica?

“Si ascolta alta. Deve comprendere tutto, non può convivere con altri rumori. Per chi la ascolta, che sia musica accomodante, ribelle, triste, allegra, per chi la ama veramente, ci deve essere soltanto lei. Musica e null’altro che musica”.

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