Incubo Covid-19: un vaccino per i “subprime” auto?

di Riccardo Bellumori, giornalista automotive

Scopriremo un giorno che, con lo scoppio dell’emergenza Covid-19, siamo stati anche a un passo da un nuovo potenziale terremoto finanziario?  I prestiti “subprime” Usa (concessi a soggetti con scarsa affidabilità o garanzia e dunque a tassi molto alti) hanno riscritto la storia del mondo dopo il primo “meltdown” del 2007 nel settore immobiliare. Poiché la prima garanzia di quei prestiti immobiliari furono le case, questo generò oltre alla crisi bancaria globale anche raffiche di esecuzioni giudiziarie e di sfratti. E poiché l’America va amata – in quanto dietro d ognuna delle sue più arzigogolate perversioni esiste sempre una motivazione etica e morale – vale la pena di annoverare la testimonianza di un Imprenditore statunitense impegnato con il suo gruppo in campo automobilistico ed immobiliare: costui, non senza orgoglio, ricordò pochi anni fa in una intervista che le tante famiglie costrette a lasciar casa non poterono davvero, nel tempo della crisi, fare a meno di un mezzo a quattro ruote sia per raggiungere un lavoro sia (addirittura) per viverci; e che, dunque, concedere loro un nuovo prestito subprime (a tassi elevatissimi) assumeva quasi un significato etico. Peccato però abbia sorvolato sul fatto che questa montagna di crediti è stata trattata, anche dopo la bolla del 2008, come sempre attraverso la costruzione sovrastrutturale e la vendita di pericolosissimi strumenti finanziari derivati. Perché pericolosi?

Perché comunque la possibilità – Covid o non Covid – che qualche milione di prestiti a rischio possa non essere onorato espone un mondo finanziario che anche negli Usa vede la maggior parte dei prestiti adeguatamente coperti, ma con un problema nell’ammontare degli strumenti derivati costruiti da banche e finanziarie per garantire gli altri prestiti, quelli appunto subprime. Una recente statistica ha rilevato che la quota di debitori classificata nel range di merito creditizio “subprime” è di circa un quinto del mercato Usa globale per il settore auto; mentre una analisi della Federal Reserve nella fine dello scorso anno ha classificato un ammontare di circa 62 miliardi di prestiti in dollari come “delinquent” (cioè ormai assoggettabile a procedure coattive di recupero), mostrando una pericolosa crescita di insolvenze proprio tra i debitori subprime. Perché, in soldoni, esiste nella morale americana di prestare soldi a chi non offre alcuna garanzia (neppure lavorativa) un rischio implicito che in Europa – dove senza garanzie gli unici a prestarti soldi rimangono gli strozzini – non esiste. Tutto qua. Decidete pure voi quale sia il sistema sbagliato, io da parte mia non ho dubbi…

Alcuni analisti e operatori del mercato finanziario paventano la possibilità che scenari economici negativi potrebbero alimentare fiammate critiche di insolvenza; per questo, già da diverso tempo, esortavano lo Stato federale e la politica statunitense a intervenire in forma preventiva sia per limitare la capacità di concedere prestiti subprime nel mercato auto sia per studiare formule di salvaguardia da un default generalizzato. Ovviamente non si può trascurare che ogni forma di credito concesso su soglia subprime sia sempre oggetto di supervisione e controllo di Enti federali come il “C.F.P.B.” (Consumer Finance Protection Bureau) e la “F.T.C.” (Federal Trade Commission) che possono avviare istruttorie di indagine e sanzionatorie nei confronti di soggetti che erogano credito, tuttavia sul montante delle istruttorie intraprese ben poche riguardano istituti emittenti contratti subprime.

Il quesito fondamentale riporta a elementi più sociali che economici: quali effetti sortirebbe, su fasce elevate di popolazione a basso reddito, un taglio nell’accesso al credito? E quali effetti sortirebbe su filiere economico-produttive che basano parte della propria attività sui crediti ad alto rischio? Eppure il problema, nelle cifre, esiste e preoccupa. Una ricerca di Moody’s della fine del 2018 rilevava nel comparto Automotive una quota del 3% del “corporate debt” globale a carico del mondo delle imprese Usa.

Tuttavia, sommando al debito propriamente detto la sommatoria dei debiti “di filiera” (materie prime, Ict, sub-forniture, componentistica, know how, etc..) ed escludendo ovviamente l’ammontare dei debiti commerciali derivanti dall’acquisto delle auto, si raggiungono i 5 trilioni di dollari. E se è vero che l’incidenza del comparto auto è notevole, le analisi finanziarie indicano nel 75% del Pil USA il livello di debito ormai accumulato dalla imprese americane.

E se l’esposizione creditizia delle Case europee verso i clienti – analizzata dal “Financial Times” a settembre 2017 – era raddoppiata dopo la crisi del 2008, l’allarme generato dalla ricerca della Federal Reserve sopra citata, risiede nel debito complessivo dei consumatori Usa, salito a quota 1,27 trilioni di dollari con un forte peggioramento nella regolarità di rimborso. Inutile aggiungere ulteriori cifre, credo, ma solo una riflessione.

Nel 2008 esplose una crisi finanziaria globale non per la precarietà del sistema dei mutui Usa, ma per il default di una sua propria parte, e tuttavia a garantire una parte di quel Default c’era comunque un solido bene immobiliare su cui rivalersi. Il circuito dei prestiti subprime nel mercato americano abbraccia soprattutto auto usate, con interessi e costi finanziari che portano gli importi medi di esposizione debitoria a superare anche di tre volte il valore dell’auto acquisita: a parte la crescita pericolosa di incagli e criticità di credito, a parte l’aumento di cartolarizzazioni e di strumenti derivati per la cessione dei crediti, dove sarebbe il controvalore a garanzia in un fiume di auto poste all’asta con valori forse decimali rispetto all’ammontare del debito da recuperare? 

E poi, su un mondo dell’auto già colpito dalla precedente crisi del 2008, segnato dallo tsunami “Dieselgate” e dalla incertezza di un futuro dove – sfumati e mutevoli – si intravedevano i contorni  di sharing mobility, guida autonoma e mobilità elettrica, arriva “lui”, il coronavirus. Che ha influito sul presente dell’auto (fermando siti produttivi automotive e inceppato logistica e subfornitura), ma influenzerà anche il suo passato e il suo futuro commerciale e industriale, sia in America sia nel mondo.

 Il suo futuro è appunto nella evoluzione di un comparto dopo che l’emergenza sanitaria ha indubbiamente modificato la “piramide” delle esigenze dei consumatori; e – soprattutto negli Usa – il passato del mondo auto è appunto lo scheletro nell’armadio, il suo debito pronto ad esplodere. Rischio da sommare a tutti gli altri potenziali “focolai”, incluso il prezzo di petrolio e altre commodities da riportare a valore, incluso il fatto che dopo la crisi del 2008 una buona fetta di debito è in mano a un numero impressionante di start up che, in caso di crolli dell’economia o di Borsa, non avrebbero certo le spalle larghe delle holding, per superare la fase più tragica.

Forse avrà tenuto conto anche di questo il presidente Donald Trump, nell’annunciare la sua famosa proposta di “Helicopter money”, cioè di una pioggia di dollari da far recapitare direttamente nelle tasche dei consumatori statunitensi per mantenere ai livelli pre-crisi i consumi; e avrà tenuto conto, nel promuovere una iniziativa di “QE” dalla Federal Reserve, anche della possibilità da parte di questa di acquistare – per ora – titoli di Stato e MBS (Mortgage Backed Securities) che in effetti sono crediti garantiti da ipoteche.

Ma, non si sa mai cosa il prossimo futuro potrebbe svelarci, anche circa l’acquisto, la garanzia o la “rottamazione” dei temutissimi “subprime loans”? Perché in effetti già abbiamo visto, dodici anni fa, quanto è costato attendere lo scoppio di una “pandemia” finanziaria.

 

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