Radek Jelinek, presidente di Mercedes-Benz Italia, si racconta

“Io, fuggito dall’Est, qui ho trovato il futuro”

Il manager ceco: «Da piccolo i miei miti erano Agostini, Stewart, Fittipaldi e i Led Zeppelin». Sono arrivato con genitori e nonni su una R8. Una tenda per dormire. Il mio obiettivo era la libertà. Da stagista a capo della Stella 

di Roberta Pasero

La macchina del tempo ha il colore delle emozioni e sfuma nel bianco e nero dei ricordi per Radek Jelinek, da poco più di un anno presidente e ad di Mercedes-Benz Italia, dopo una carriera vagabonda per il brand tedesco. Ma per arrivare sino a qui, Jelinek ha dovuto fuggire dal suo passato. E giocare a dadi col destino.
La time machine lo riporta al 1973, a Brno, nella Repubblica Ceca. Gli anni del comunismo post Dubcek, dopo la primavera di Praga e l’invasione sovietica del 1968. Là un ragazzino di 11 anni, papà tecnico petrolchimico, mamma impiegata in uno studio di architettura, sognava in grande. E aveva tre miti: Giacomo Agostini, Jackie Stewart ed Emerson Fittipaldi.


«Quell’estate ci permisero di uscire temporaneamente dal Paese per una vacanza in Italia. Partii con genitori e nonni su una Renault 8 bordeaux, con la tenda per dormire sul tetto. Varcando il confine, capii subito che qui c’era il futuro. Tutto era nuovo, pulito. Sembrava di attraversare i plastici dei modellini ferroviari. E io avevo il cuore pieno di stupore». Jelinek mette a fuoco i ricordi. «Acquistai dei pantaloni a zampa d’elefante e una giacca di plastica rossa con due strisce bianche, come quella di Giacomo Agostini. Comprai anche due modellini di F1, la Tyrrell blu di Jackie Stewart e la Lotus John Player Special nera di Emerson Fittipaldi che ancora conservo», dice con voce ammorbidita da inflessioni sudamericane. La gente era libera, era colorata. Mi sono detto: «Voglio questo per me». Volevo dire cosa pensavo. Volevo viaggiare, vedere i Led Zeppelin dal vivo, comprare un paio di Adidas. E studiare economia internazionale, una facoltà aperta solo ai figli dell’establishment comunista, nonostante io avessi 10 di media».

Giorno dopo giorno, Jelinek meditò la sua fuga per la libertà. Senza condividerla con nessuno. Perché nessuno doveva fermarlo. Né genitori né nonna, né fidanzata né amici. Nell’agosto del 1982, quando la famiglia era in vacanza, arrivò il suo d-day. «Comprai marchi tedeschi al mercato nero. Misi nello zaino un paio di scarpe, due jeans, qualche maglietta e scatole di cibo in lattina». Venti chili sulle spalle erano le sue ali per la libertà.
E così cominciò la sua fuga verso il futuro in autostop. «Avevo 20 anni, i capelli lunghi, un’aria poco raccomandabile, ho dormito anche nelle stalle con gli animali, qualcuno mi apriva la casa». Bratislava, Belgrado, dopo una settimana Lubiana. Qui acquistò cartina e bussola. E si trasformò in Indiana Jones. «Dovevo arrivare a 2.200 metri e da lì scendere in Austria. Mi incamminai di notte nel bosco ascoltando i cani dei soldati che stavano cercando quelli come me. Caddi almeno 10 volte e mi addormentai. Il mattino dopo arrivai in cima, proprio davanti ai soldati del posto di frontiera con il Kalashnikov. Mi sentii perduto: «Sono un turista, cerco acqua. C’è una fonte poco più in giù», mentii. Offrii della vodka che avevo nello zaino e alla fine mi fecero passare. Approfittando del cambio della guardia finsi di tornare indietro, poi cominciai a scappare. Solo che i fiumi indicati sulla cartina in realtà erano cascate e non so nemmeno io come riuscii a superarle. Quando arrivai distrutto in Austria, compresi di essere libero. Ma subito mi domandai: “E adesso cosa faccio qui?”. Non avevo famiglia, amici, nessuno. Si era chiuso per sempre un capitolo della mia vita», riflette.

Ripartire da zero. Ritornare al futuro. Con un incubo che pesava sul cuore. «I primi due anni sognavo quasi tutte le notti di essere tornato indietro. Di trovarmi nella Repubblica Ceca prigioniero della mia vecchia vita. Un pensiero ricorrente e difficile da cancellare».
Chiese asilo politico alla Germania perché a Kassel abitava una zia. Lavorando in un supermarket e con una borsa di studio si iscrisse a Economia cominciando poco dopo uno stage proprio in Mercedes. «Quando la polizia ceca capì che ero scappato, venni processato e condannato in contumacia a tre anni di carcere», ricorda. All’improvviso il futuro presidente di Mercedes-Benz Italia divenne un pregiudicato. Un latitante. E lo rimase fino a quando nel 1989 la Rivoluzione di Velluto segnò la fine del comunismo e un’aministia azzerò la condanna.
Allora la carriera vagabonda di Jelinek era già in ascesa. Germania, Argentina, Venezuela, ancora in Germania, Italia e Messico. Gli domandarono anche di tornare a casa, con un ruolo importante, ma rispose no. «Non torno mai indietro nella vita. Voglio sempre andare oltre. E poi non mi sento né ceco né tedesco. Le mie radici sono sparse in diversi angoli del mondo».

Oggi il suo punto di forza è la creatività. Non è un accentratore, studia strategie out of the box, punta su emozioni e lato umano. E ama distinguersi già dal look. Perché detesta gli uomini grigi. Guida un Suv Classe G, ascolta musica Ibiza style, ama sci e tennis, e vive circondato da donne: un’ex moglie ceca, sua fidanzata ai tempi della fuga, una moglie argentina con radici marchigiane e 4 figlie, dai 33 ai 13 anni. «Sono un padre amico. Con le mie ragazze parliamo di tutto, anche di sesso. Ma sono diverse da me: come tutti i giovani della loro generazione sono sempre proiettate oltre, senza riuscire a fissare i ricordi. Io, invece, il passato non lo dimentico mai».

È il suo futuro che lo preoccupa. Perché nemmeno con la time machine immagina cosa accadrà quando chiuderà con il lavoro. «A volte mi chiedo dove sarà la mia casa. Forse in Italia. O forse ricomincerò a viaggiare, con il mio zaino riempito di ricordi».

Radek Jelinek

 

Foto: Radek Jelinek, presidente di Mercedes-Benz Italia

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