Oggi, 14 settembre, nel Duomo di Torino, l’arcivescovo Cesare Nosiglia celebrerà la messa in ricordo di Sergio Marchionne, l’ex ad di Fca, ex presidente e ad di Ferrari ed ex presidente di Cnh Industrial, scomparso a Zurigo il 25 luglio scorso. Alla cerimonia di commemorazione saranno presenti i vertici dell’azienda e i familiari. Anche “Fuorigiri”, nel partecipare con commozione a questo rito, vuole ricordare Marchionne con le parole di Tony Damascelli, editorialista de “il Giornale”.

Marchionne, IL capo

di Tony Damascelli

Non poteva esserci una storia diversa per il figlio di un carabiniere e di una profuga istriana. Sergio Marchionne ha racchiuso, nella sua grandiosa carriera professionale ma feroce esistenza nell’epilogo, gli elementi indicativi del padre e della madre, la ferrea fedeltà nel servire le istituzioni e la luce di speranza di chi è costretto a fuggire dal buio della guerra.

Marchionne ha vissuto sessantasei anni non cambiando se stesso ma cercando di cambiare il mondo che gli stava intorno, un mondo quasi rassegnato, pigro, abbandonato alla memoria di una grandiosità ormai defunta. La Fiat che lui raccolse questo era, immagine senza sostanza, una casa di carta, un muro dietro il quale c’erano rovine, la caduta dell’impero.

Oggi quella stessa casa è un edificio solido, il merito va ai lavoratori che, tra mille difficoltà, hanno seguito l’esempio massimo del nuovo capo, il primo a non avere conosciuto Gianni Agnelli, il primo a essere stato scelto da Umberto Agnelli sul quale la stampa volentieri e misteriosamente non si trattiene. Ha cambiato la pelle di una azienda, la fabbrica è diventata sistema, l’Italia ha ritrovato una identità imprenditoriale riconosciuta oltre confine, i miserabili veleni ideologici degli avversari di Marchionne sono neutralizzati dai risultati, dal valore azionario rispetto a quattordici anni fa.

Se oggi si scrive e si parla di Sergio Marchionne è perché non è stato un manager, un amministratore delegato, un dirigente come gli altri. Non si scrive e si parla di lui perché è morto in una clinica di Zurigo, nel silenzio di un mese angosciante. Si scrive e si parla di lui perché Sergio Marchionne non è stato un capo ma IL capo, il motivatore, il leader carismatico senza bisogno di apparire bello, alla moda, godendo della buona stampa che ha accompagnato, e ancora scodinzola, altre figure belle e astute che hanno lasciato macerie dovunque siano passate.

Marchionne ha costruito, ha spiegato, ha illustrato, ha permesso di farci nuovamente conoscere e riconoscere all’estero. Verranno giorni di rabbia per l’occasione perduta, verranno altre figure a vivere l’impresa dell’automobile. Oggi i motori sono spenti, chiuse le saracinesche dei box, la bandiera, quella della Ferrari e dell’Italia cerca il vento che non c’è più.    

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