A proposito di “brand reputation”
di Fabrizio Lubrano Lavadera (www.hurrymagazine.it)
In un precedente articolo (https://goo.gl/iGyWXD) ci siamo occupati di brand reputation, commentando la graduatoria dei marchi con la miglior reputazione in ambito automotive. Abbiamo ritenuto utile approfondire il tema rivolgendoci a Fabio Ventoruzzo, director del Reputation Institute che ha fornito i dati dello studio sui brand più amati dagli italiani. Un’occasione per indagare più a fondo sulle dinamiche della reputazione, su come essa venga costruita nel tempo, e sulle strategie per prevenire una crisi reputazionale. (“Fuorigiri rilancia il servizio”).
Una domanda che vale da premessa: esiste ancora, secondo lei, una seppur lieve distinzione tra reputation online e reputation offline, o si sono ormai fuse definitivamente?
“Non può e non deve esistere una differenza tra web reputation (solo in rete) e la reputazione complessiva. La reputazione di una organizzazione è una sola. Sebbene goda di grande seguito e abbia permesso lo sviluppo di competenze e professionalità specifiche, alcune d’eccellenza, la web reputation, tuttavia, contiene però, già nella sua definizione, una forzatura di fondo, una confusione tra strumento (web) ed effetto (reputazione). Ciò che si dice o scrive sul web è sicuramente uno dei punti di contatto attraverso cui le persone si formano un’opinione delle aziende. Ma, appunto, è solo uno dei canali perché la reputazione si basa anche su comportamenti effettivamente agiti e non solo sul web”.
Per quale motivo alcuni brand hanno una reputation migliore del gruppo a cui fanno riferimento? Mi riferisco ad esempio al Gruppo Volkswagen, 35° nella classifica, ma con quattro dei suoi brand (Lamborghini, Audi, Porsche e Ducati) che si trovano nella top ten.
“Nel settore automotive ci sono alcuni brand molto aspirazionali come Ferrari, Lamborghini e Maserati. Anche Audi e Bmw sono brand del segmento premium price capaci di costruire un legame emotivo molto forte. Tuttavia, l’architettura di brand di alcuni gruppi del settore automotive è molto complessa, soprattutto dopo le recenti fusioni e acquisizioni. Nel caso Volkswagen, lo scandalo (il “Dieselgate”, ndr.) ha pesato molto sulla “mother brand” piuttosto che sui singoli marchi, perché la percezione collettiva di un fenomeno, soprattutto se a seguito di una significativa copertura media, va a impattare molto il marchio più conosciuto, che tendenzialmente è quello mass market”.
Restando su questo tema, in che misura incide uno scandalo sulla reputazione di un brand? E come limitare i suoi effetti?
“Le crisi reputazionali possono essere prevenute e i loro effetti ammortizzati. Esistono due modi oggi per limitare gli effetti di una crisi sul capitale reputazionale: avere già di partenza un ottimo capitale reputazionale che metta in sicurezza il posizionamento raggiunto, oppure monitorare quegli eventi che potenzialmente possono influenzare negativamente la percezione di una azienda e costruire piani per mitigare preventivamente questi effetti. Due gli effetti delle crisi sulle aziende: una relazione tra caduta della reputazione e capitalizzazione di mercato; una difficoltà a rientrare nei livelli pre-crisi da parte di quelle aziende che non hanno una reputazione forte. Nel caso specifico di Volkswagen abbiamo visto come la crisi, sebbene non abbia impattato sulle vendite, ha invece avuto degli effetti a breve e, probabilmente, a lungo termine sulla bottom-line dei bilanci (es. margini e utili). Allo stesso tempo, sebbene in ripresa, i livelli reputazionali del gruppo sono rimasti nella fascia moderata, con alcune aree reputazionali più impattate dalla crisi, come la percezione legata alla responsabilità e alla trasparenza dell’azienda”.
Esistono secondo lei brand sottostimati?
“La reputazione è una percezione e come tale non può essere sovra o sottostimata. È un dato fattuale che proviene dalla testa e dalla pancia delle persone”.
Quali indici sono stati presi in considerazione nell’assegnazione dei punteggi?
“Reputation Institute basa le proprie analisi sulla reputazione sul modello RepTrak Pulse. Questo indice è in grado di misurare il legame emotivo che le persone hanno nei confronti di aziende, paesi e persone. È, in pratica, un indicatore che identifica il loro grado di ammirazione, fiducia, stima e feeling positivo”.
In che modo vengono raccolte le informazioni?
“Reputation Institute non è una società di ricerca. Ci piace definirci una società di consulenza “data-driven”: partendo dai dati – raccolti in esclusiva da uno dei principali data provider del mondo – supportiamo le aziende nelle loro strategie di business e di comunicazione. I dati su cui lavoriamo derivano prevalentemente da survey online (cd. Modalità CAWI) per la rilevazione del percepito di un campione rappresentativo della popolazione italiana. Accanto a questa metodologia, ovviamente, affianchiamo altre rilevazioni, sia quantitative che qualitative, a seconda degli obiettivi (es. interviste telefoniche, face-to-face, on line conversations)”.
Avete ricevuto critiche da parte di quei brand che si sono posizionati peggio in classifica?
“In generale no. Le aziende sono oggi molto consapevoli di come si posizionano agli occhi dei consumatori e il nostro indice talvolta è per loro una conferma sulla percezione che gli Italiani hanno di loro. Ma soprattutto, i nostri dati non sono una valutazione. Sono piuttosto funzionali alla costruzione di strategie di comunicazione che, rafforzando la reputazione, influenza le scelte delle persone (acquisto, passaparola), impattando così sul business aziendale”.
In conclusione, che cosa possono fare i brand e cosa fanno per migliorare la loro reputation?
“Le aziende oggi stanno diventando sempre più consapevoli che la reputazione è sì un capitale intangibile, ma con degli impatti significativi sul business.
È importante, soprattutto nel settore automotive, non limitarsi alla sola comunicazione/pubblicità di prodotto (che genera awareness). Ma occorre lavorare molto per far conoscere tutta l’azienda: non basta che “più persone conoscano l’azienda”; oggi infatti “più le persone conoscono un’azienda più si sentono coinvolte/legate a quell’azienda”. Raccontare solo i marchi in portafoglio oggi non è premiante. Occorre costruire e raccontare una storia credibile sui contenuti che più impattano la reputazione perché considerati prioritari per le persone che giudicano le aziende. Il caso Bmw nel settore automotive è emblematico, con la Casa tedesca che ha lavorato molto sul suo posizionamento non solo lato prodotto ma anche responsabilità sociale. Le aziende stanno quindi cercando di attuare azioni di lungo termine, cercando di rispondere alle crescenti attese delle persone rispetto al ruolo sociale delle aziende e al loro impatto sulla società”.