Va bene il “meccatronico”, ma c’è ancora qualcosa da sistemare

di Stefano Belfiore (www.inforicambi.it)

 

Un dato eloquente e significativo che testimonia quanto il comparto dell’autoriparazione nazionale rappresenti un anello importante nella filiera dell’aftermarket automobilistico è il grado di distribuzione delle nostre officine in Italia. La fotografia è scattata dal Cerved e sviluppata dall’Osservatorio Autopromotec. Lo scorso anno gli autoriparatori erano 86.499 con una crescita, rispetto al 2015, del + 1,16%. Una maggiore dinamicità imprenditoriale si è registrata tra le aziende di autolavaggio, gommisti e meccanici. Calando la lente analitica a livello territoriale, si registra poi una più alta concentrazione nel Centro-Nord Italia: nelle due aree geografiche, secondo lo screening, si calcola una crescita annua rispettivamente dell’1,9 e 1,5%. Che tradotto in valore assoluto vuol dire: 317 e 563 nuove officine aperte negli ultimi 12 mesi. In un raffronto statistico con il 2014, si nota, però, una flessione delle officine di elettrauto. Performance spiegabile per la graduale fusione tra le attività di meccanica e quelle appunto di elettrauto che dovranno confluire, dal 5 gennaio 2018, nella figura professionale del meccatronico, così come sancito dalla norma numero 224/2012 in vigore dal 5 gennaio 2013. Se da un lato la legge è salutata positivamente da Confartigianato Autoriparazione (permette agli autoriparatori artigiani indipendenti di aggiornare le proprie compente così da saper riparare i nuovi modelli di auto, tecnologicamente avanzate nella loro componentistica), dall’altro l’Associazione di categoria, presieduta da Alessandro Angelone, non manca di evidenziare alcuni gap da colmare. Il punto critico riguarda l’attività di gommista che la legislazione regolarizza. Ma lo fa, secondo Confartigianato, con una formazione professionale che potrebbe creare non pochi problemi a chi opera nel mondo degli pneumatici. In pratica, si impone al responsabile tecnico, che nelle imprese artigiane è sempre il titolare o il socio, di frequentare un corso regionale e svolgere almeno un anno di lavoro come dipendente qualificato di un’impresa del settore. “Cosa che per, per un artigiano in attività, – denuncia Confartigianato – è di fatto impossibile”. Da qui la richiesta associativa (inviata al ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda) di considerare abilitante il solo corso formativo per tutte quelle attività che, da tempo, eseguono queste operazioni. Senza, dunque, pretendere una successiva esperienza lavorativa da dipendente.

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