Stop al Maggiolino e Volkswagen uccide se stessa

di Benny Casadei Lucchi

Enzo Ferrari, il 14 luglio 1951, giorno in cui le sue Rosse sconfissero per la prima volta lo squadrone Alfa Romeo in un Gp di F1, disse: «Oggi ho ucciso mia madre». Alludeva agli anni passati lavorando per la Casa milanese e gestendo le vetture del Biscione come Scuderia, quando non realizzava ancora le fuoriserie che conosciamo.

Con la decisione di chiudere la produzione del Maggiolino, la Volskwagen non ha ucciso la propria madre. È andata oltre: ha un po’ ucciso sé stessa. Non nelle vendite o nei fatturati stellari, bensì nella poesia di un modello diventato marchio, nome di un’intera industria e capace di rendere romantiche le proprie origini nonostante poggiassero su un dramma dell’umanità.

Era infatti stato Hitler, all’inizio degli anni ‘30, a convocare l’ingegner Ferdinand Porsche per chiedergli una vettura resistente, economica, spaziosa che motorizzasse i tedeschi. E Porsche gliela aveva data, realizzando l’auto del popolo: la volsk wagen.

La vetturetta dovette però aspettare la fine del conflitto per spopolare. Stesso destino della rivale, la Citroen 2CV, i cui prototipi e progetti i francesi avevano nascosto durante gli anni dell`occupazione tedesca. Anche la buffa transalpina, come il Maggiolino, avrebbe motorizzato il proprio Paese e invaso pacificamente il mondo. Se i nazisti ne avessero trovato i disegni, forse non avremmo avuto né l’una né l’altra, forse un ibrido, chissà…

Due miti dell’automobilismo da sempre legati benché diversi nel destino. Perché fu proprio la Volkswagen, con il New Beetle, il Maggiolino ammodernizzato nelle linee e nella tecnica, ad avviare a fine Millennio la moda delle vetturette celebri ripensate e che, purtroppo, di popolare non avrebbero avuto più nulla, a partire dai costi. E fu proprio la Citroën con la 2CV a rimanere invece ancorata al passato, a mandare in pensione il proprio mito senza poi violentarlo con i restyling.

Supponenza o grandeur francese? Non fa differenza quando è giusta. Perché le opere d’arte, anche quelle di pistoni e cilindri, vanno lasciate così. Piccoli monumenti su ruote che sfrecciano arrugginiti.

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